Laura Prandino, su Biblit, ha segnalato questo articolo dell’Observer, nel quale Tim Parks sostiene che “è tempo di riconoscere il lavoro dei traduttori”, e che non meritiamo di finire anche noi lost in translation.
Parks apre con alcune domande, che insieme alle loro lapidarie risposte sono estremamente efficaci nel dimostrare il punto centrale dell’articolo:
“Chi ha scritto il Milan Kundera che avete tanto amato? Risposta: Michael Henry Heim. E che dire di quell’Orhan Pamuk che pensate sia tanto intelligente? Maureen Freely. E la fantasiosa erudizione di Roberto Calasso? Beh, quella è mia.”
Si tratta di un problema di cui noi traduttori siamo ben consapevoli, ma che a volte persino noi tendiamo a tralasciare quando ripensiamo a ciò che abbiamo letto prima di diventare traduttori. Sembra piuttosto naturale, in realtà, attribuire la bellezza di una storia alla persona il cui nome è stampato in copertina. Dopotutto, i traduttori non dovrebbero aggiungere od omettere o cambiare nulla di significativo, no? Ciononostante, quando il lettore arriva al punto di dimenticarsi che sta leggendo una traduzione, e non è consapevole del processo che ci sta dietro, la cosa infastidisce parecchi di noi, e soprattutto impedisce che la traduzione letteraria venga pienamente riconosciuta e valorizzata. Parks individua un paio di motivi molto semplici, fondamentalmente emotivi:
“Il grande e carismatico scrittore creativo vuole conquistare il mondo. E l’ultima cosa che è disposto ad accettare è che la maggioranza dei suoi lettori non stanno davvero leggendo ciò che ha scritto. E lo stesso vale per i lettori. Vogliono un contatto intimo con la vera grandezza dell’autore. Non vogliono sapere che la prosa in questione è stata scritta in una casetta di Brema da una persona che a malapena arriva a fine mese, o in qualche appartamento di un palazzone di Osaka . Quanti ragazzini vogliono sentirsi dire che la loro JK Rowling è in realtà un pensionato che fuma una sigaretta dopo l’altra?”
Le immagini che Parks tratteggia sono fin troppo familiari, sfortunatamente, e il concetto che esprime chiama in causa la mitologia della letteratura. Qualsiasi cosa abbia l’industria dell’editoria di prestigioso, i traduttori non ne fanno quasi mai parte, indipendentemente da quanti lettori leggono i loro lavori. Non che ci aspettiamo di essere intervistati e idolatrati, dopotutto non contribuiamo alcun contenuto. Tuttavia, è facile rendersi conto che i soldi che guadagniamo non sono in alcun modo proporzionati ai soldi che permettiamo di guadagnare alle case editrici.
Più avanti, Parks scrive:
“Non saprete mai esattamente ciò che ha fatto un traduttore. Il traduttore legge con un’attenzione maniacale alle sfumature e alle implicazioni culturali, consapevole di tutti i libri che stanno dietro a quello che sta traducendo; dopodiché si mette a riscrivere quest’opera assurdamente complessa nella propria lingua, rielaborando ogni cosa, cambiando tutto di modo che tutto resti uguale, o comunque il più vicino possibile alla sua esperienza dell’originale. In ogni frase deve combinare il rispetto e lealtà da un lato e ingegno ed inventiva dall’altra. Immaginate di spostare la Torre di Pisa nel centro di Manhattan e di convincere tutti che si trova nel posto giusto; è questa la portata del compito.”
Mi piace molto, quest’immagine, giacché nelle mie intenzioni uno degli scopi di questo blog è di illustrare e divulgare il mestiere del traduttore letterario, senza troppi tecnicismi da scritti accademici, e penso che questo paragrafo sia davvero un ottima maniera di descrivere in poche parole il processo della traduzione.
Trovate l’articolo qui. Quanto al sottoscritto, è ora di tornare alla mia Torre di Pisa.