Sette anni fa, su Biblit, comunità online per traduttori letterari fondata nel 1999 da Marina Rullo, un gruppo di colleghi lanciò un’iniziativa volta a sensibilizzare addetti ai lavori, organi di stampa, e opinione pubblica, riguardo la mancanza del dovuto riconoscimento al lavoro dei traduttori letterari. Con una storica lettera che raccolse centinaia di firme, questo manipolo di eroi lanciò un messaggio chiaro, che venne anche ripreso da diversi giornali, siti, e addirittura da un TG. La raccolta firme andò avanti fino al luglio del 2006 (quando il sottoscritto aveva appena completato la sua prima traduzione per Strade Blu). La speranza era che le cose sarebbero migliorate sensibilmente. A sette anni dalla pubblicazione, e a quattro anni dalla chiusura delle adesioni, è cambiato pochissimo. Il traduttore letterario continua spesso e volentieri a non essere citato nelle recensioni e nelle presentazioni delle sue opere. Mi sembra quindi doveroso non solo riproporre quell’appello ma anche rilanciare una discussione sul futuro, giacché la battaglia dei cavalieri erranti è tutt’altro che finita…
«Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede […] di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. […] Gli si chiede di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare. […] Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui […] un asceta, un eroe essenzialmente disinteressato, pronto a dare tutto se stesso in cambio di un tozzo di pane e a scomparire nel crepuscolo, anonimo e sublime, quando l’epica impresa è finita. Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura».
(Fruttero&Lucentini, I ferri del mestiere, Einaudi, Torino 2003)
Siamo noi i cavalieri erranti: del sublime non vogliamo dire, ma l’anonimato lo conosciamo bene. Non rivendichiamo eroismi e il crepuscolo è il fondale di tutti i nostri giorni, ma siamo stanchi di lasciare che c’inghiotta a ogni impresa.
Abbiamo nomi e cognomi, dietro i quali convivono la passione per un lavoro che si nutre di silenzio, ma anche un’amara dose di frustrazione perché il mondo che crediamo di abitare a pieno diritto, il mondo delle parole, della letteratura, della saggistica, troppo di rado si accorge e si ricorda di noi.
I nostri editori, è vero, scrivono il nostro nome sui frontespizi, qualche coraggioso persino in copertina: alla menzione sono obbligati da una legge che protegge le elaborazioni creative di un’opera, «quali le traduzioni in altra lingua», e dunque equipara nel diritto la dignità artistica del traduttore a quella dell’autore. Ma solo poche, onorevoli voci di recensori riconoscono piena dignità alla figura del traduttore e poco più numerosi sono i redattori delle pagine culturali di giornali e riviste che si preoccupano di indicarne il nome accanto agli altri dati.
La stessa legge afferma che riassunti, citazioni o riproduzioni di un’opera dell’ingegno debbano essere «sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratta di traduzione, del traduttore», ma l’abitudine consolidata è di riportare passi di un’opera tradotta all’interno di qualsiasi testo o di leggerli all’interno di un programma senza mai citare la persona che quell’opera ha reso disponibile nella nostra lingua.
È alla luce di questa avvilente e quotidiana constatazione che riteniamo giusto rivolgerci al vasto pubblico nel tentativo di uscire da quell’eterno crepuscolo che per le caratteristiche della nostra attività ci riguarda, ma non esaurisce la verità del nostro lavoro. È importante che restiamo discreti, ma non vogliamo essere invisibili.
Al lettore generico può sfuggire, leggendo in italiano un libro non pensato nella sua lingua, che qualcuno deve pur avere dedicato qualche mese della sua vita a tradurre quelle pagine… Ma con gli «addetti ai lavori», con i critici, i recensori, i redattori di pagine culturali, i giornalisti, i conduttori di trasmissioni in cui a qualunque titolo si parli di libri, non ci sentiamo di essere altrettanto indulgenti.
Ci siamo anche noi, siamo parte del processo che dà vita a oggetti importanti: i libri. I libri del pianto e del riso, dell’amore e del dolore, della conoscenza e dell’evasione, i libri che in ogni modo toccano il cuore e la mente delle persone, si devono anche a noi. Desideriamo che il nostro nome sia lì a confermarlo e che la nostra opera non passi sotto silenzio.
Il recensore che si prodiga in elogi dello stile, delle scelte lessicali, delle acrobazie linguistiche di un autore, se ha letto il libro in originale dovrebbe sentire il dovere di commentarne la resa italiana; e se l’ha letto in italiano, dovrebbe ricordarsi che ha letto le parole, le frasi e i ritmi scelti dal traduttore.
Chiediamo il giusto riconoscimento così come siamo pronti ad accettare qualunque critica competente e motivata.
Siamo cavalieri erranti, e non abbiamo paura.