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Posts Tagged ‘L’arte della Traduzione’

Molti di voi conosceranno l’ottimo blog Three Percent, che la University of Rochester mantiene sin dal 2007. Probabilmente saprete anche che il nome viene dalla stima che le traduzioni costituiscano meno del 3% delle opere pubblicate ogni anno in inglese. Sappiamo invece che in Europa, e nel resto del mondo, invece, quella cifra può raggiungere il 35%. Si tratta di una differenza enorme, specialmente quando consideriamo l’importante ruolo giocato dalla traduzione nello sviluppo e nella costante rigenerazione delle letterature nazionali (pensiamo a Goethe, secondo il quale senza influenza esterne le letterature nazionali si ritrovano rapidamente in una fase di stagnazione). Si potrebbe quindi pensare, sulla base di queste cifre, che ci sia molta più attenzione verso la traduzione e verso “l’Altro” al di fuori della cosiddetta anglosfera. Come sempre, però, la questione non è tanto semplice.

C’è un altra faccia del problema. Le traduzioni verso l’italiano (e verso quasi ogni lingua, con l’eccezione dell’Inglese) sono spesso commissionate da editori che devono sottostare ad una logica puramente commerciali, per cui non soltanto la maggior parte delle traduzioni è composta da letture da ombrellone, ma persino la traduzione di quelle opere che hanno maggiore dignità letteraria deve sottostare ad una concezione da “catena di montaggio” a causa della quale abbiamo spesso appena tre o quattro mesi per tradurre un libro, o, in alcuni casi, poche settimane. Le traduzioni verso l’inglese, invece, sono spesso opere accademiche o vengono commissionate da editori molto seri ed attenti. Attenti non solo alla qualità delle opere o della loro traduzione, ma anche al traduttore e alla sua importanza, con conseguenze notevoli anche sui compensi e sulla visibilità dei traduttori. Questa radicale differenza nella percezione del ruolo della letteratura tradotta sui diversi mercati non è soltanto di tipo filosofico, ma è causa anche di enormi differenze nel modo in cui i traduttori si trovano a lavorare.

Negli ultimi mesi, ad esempio, ho tradotto due libri in pochissimo tempo, per una serie di ragioni di marketing. Si trattava di un memoir di 350 pagine, tradotto in meno di due mesi, e di un libro accademico che avevo soltanto ventisette giorni per tradurre. Ho fatto del mio meglio, lavorando tra le 60 e le 70 ore a settimana così da riuscire a fare perlomeno quattro stesure di ogni libro. Due o tre in meno di quelle che faccio di solito, e, oltretutto, non c’era il tempo di mettere da parte la traduzione per una settimana, dedicarsi a qualcos’altro, e riprendere in mano la traduzione a mente fredda, una pratica che mi permette sempre di fare un passo indietro e di scovare piccoli dettagli che sfuggono all’occhio quando si lavora senza sosta. Parlando con Meredith McKinney a cena, al recente simposio di Sydney, siamo rimasti vicendevolmente shockati, io dal fatto che lei abbia, in media, un anno di tempo per ogni libro che traduce, e lei del fatto che io stessi per imbarcarmi in una traduzione di 350 pagine che avrei dovuto finire in sette settimane. Poi la mattina dopo John Minford ci ha ricordato che era quattro anni in ritardo sulla data di consegna della sua traduzione dell’I-Ching per Penguin Classics, mettendo ulteriormente in evidenza questa affascinante differenza nel modo in cui ci troviamo a lavorare. Da qui è partita una riflessione sui diversi trattamenti riservati alla traduzione e ai traduttori, un tema che continuava a venire a galla durante le conversazioni con i colleghi durante il simposio, soprattutto perché ero uno dei pochi traduttori a tradurre non verso l’inglese ma dall’inglese.

Sembra quindi che la domanda sia la seguente: è meglio avere un’ampia gamma di influenze straniere nella forma di molte traduzioni affrettate oppure contare su una piccola nicchia di opere tradotte da persone che sono innanzitutto autori e accademici? Non è facile dare una risposta secca, ovviamente. E, pensandoci bene, sarà poi inevitabile che questa differenza si rifletta sulla qualità delle traduzioni? In una recente intervista ad Anna Maria Biavasco, la mia maestra ha fatto notare che

Un tempo a tradurre erano letterati, intellettuali e studiosi. Bravissimi a scovare opere interessanti, ma spesso non altrettanto a tradurre. Adesso ci sono gli editor che leggono, leggono e leggono alla ricerca del libro da pubblicare e i traduttori che traducono, traducono e, secondo me, traducono meglio perché conoscono meglio il loro mestiere.

La sua osservazione complica ulteriormente il problema. Non è da escludere che le esigenze del mercato al di fuori del mondo anglosassone comportino una migliore formazione e  una pressione tale da portare i traduttori cresciuti all’interno di quei sistemi ad acquisire un approccio più pragmatico ed efficiente, che può permettere di compensare i tempi strettissimi e gli editori disattenti, al contrario di quanto avviene nell’anglosfera, dove i traduttori lavorano in un ambiente più accademico e, a volte, dilettantistico (nel senso buono della parola).

Si tratta di un tema molto interessante per un traduttore come il sottoscritto, che traduce letteratura verso l’italiano e sta cominciando a discutere di traduzione in un ambiente anglofono, e spero che la discussione si possa sviluppare ulteriormente con l’aiuto dei commenti dei lettori. La domanda definitiva, tuttavia, sembra piuttosto semplice: perché scegliere fra questi due modelli? Possibile che sia così difficile rendersi conto che servono più traduzioni, che i traduttori hanno bisogno di tempo per produrre opere di qualità, e che non possono fare affidamento sulla sola passione per la letteratura ma devono anche studiare approfonditamente il proprio mestiere?

Foto: Books, di Ryan Hide (Flickr), particolare.

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San GirolamoUn paio di mesi fa il mio talentoso collega, ideatore di No Peanuts! nonché star della blogosfera Wendell Ricketts ha scritto un interessantissimo articolo, Please stop talking about art, lamentando la fastidiosa tendenza di certi traduttori letterari che spesso parlano del proprio lavoro come una sorta di rituale mistico e sciamanico che soltanto alcune anime speciali possono portare a termine. Ovviamente una simile concezione non ci aiuta granché a presentarci come professionisti specializzati che hanno studiato tanto e continuano a studiare tanto, e che pertanto meritano un minimo di riconoscimento. Personalmente, credo che la traduzione letteraria spesso richieda abilità leggermente diverse dalla traduzione puramente tecnica. La lingua, in un romanzo o in una poesia, non viene usata soltanto per comunicare delle informazioni, ma è piuttosto uno strumento con il quale coinvolgere il lettore intellettualmente ed emotivamente. Quindi, certo, va da sé che che un traduttore letterario dovrà avere una sensibilità linguistica e una flessibilità leggermente diverse, ma il processo resta fondamentalmente lo stesso. Sono le abilità complementari che sono importanti se si vuol tradurre l’opera di  un grande scrittore anziché un manuale scritto coi piedi. Tuttavia, come sottolinea Ricketts (che spero mi perdonerà se lo traduco al volo):

la traduzione editoriale (ossia letteraria) costituisce meno del 10% dell’intero mercato della traduzione

Ora, parliamo delle abilità necessarie a tradurre tanto quel 10% quanto il restante 90%. Ricketts le descrive molto accuratamente:

Cioe, sul serio. Possiamo smetterla di parlare di arte, per favore?

Parliamo invece di abilità. Come la capacità di scrivere in maniera chiara e competente nella vostra lingua madre; la pazienza necessaria a capire quel che state leggendo; la padronanza di un vocabolario vasto e altamente flessibile, la sensibilità necessaria a riconoscere un’ampia gamma di registri linguistici; una vasta conoscenza di un particolare settore, se siete specialisti; un’ampia cultura generale, che siate specialisti o meno; familiarità non soltanto con quel che il testo “significa” ma con il come lo significa; competenza nell’editing; eccellente padronanza della vostra lingua madre.

Tutte queste non sono arti appena abbozzate, appannaggio esclusivo delle sacerdotesse delle Muse. Si tratta di capacità professionali che si affinano facendo pratica ed esperienza, e lavorando sodo.

E tutte quante si possono insegnare.

Esattamente. Fra l’altro, a tradire l’insegnabilità dell’arte, c’è il detto “Impara l’arte e mettila da parte”. Qui però ci troviamo davanti a un fenomeno affascinante. Uno slittamento semantico avvenuto nell’ultimo secolo, o forse anche solo negli ultimi sessant’anni e qualcosa. Quella concezione oscura e metafisica dell’arte. Quell’arte pretenziosa. Eppure l’arte è ed è sempre stata fondamentalmente qualcosa di pratico. Soltanto che, ad un certo punto, schiere di bohémien ubriachi, fricchettoni, e tossici punkettari, accomunati dal troppo tempo libero, hanno cominciato a spingere quest’idea secondo la quale era tutta una questione di ispirazione, mentre abilità e tecnica erano idee reazionarie da sfigati borghesi. Ancora non capisco perché prendiamo sul serio quest’idea. Ci sono addirittura accademie d’arte dove non si impara più a disegnare la figura umana, e questo mostra una sinistra tendenza a negare l’importanza dell’abilità tecnica. Ma allora cos’è l’arte? L’infinito ed infinitamente pretenzioso dibattito volto a definirla non è cosa per me, quindi ho semplicemente deciso di controllare un qualsiasi dizionario:

arte (s.f.)
1. Attività dell’uomo basata sul possesso di una tecnica, su un sapere acquisito sia teoricamente che attraverso l’esperienza; in tal senso, coincide anche con un mestiere che richieda un’abilità specifica […] 2. Produzione di opere adeguate ai canoni estetici del bello […] 4. Abilità nel compiere una data azione […]

Il dizionario etimologico online (in inglese) parla di “abilità tecnica”, “capacità”, “modo”, “maestria”. Nulla che suggerisca significati del tipo “roba prodotta un po’ a caso da fannulloni arroganti ed incompetenti che non hanno voglia di imparare alcunché e, terrorizzati dall’idea di lavorare, tentano di convincere abbastanza persone che sono in realtà dei geni.”

Ovviamente Wendell Ricketts, assai pragmaticamente, dà per assodato questo slittamento semantico, e accetta che, se quella è l’immagine che prende forma nella mente della gente quando sente la parola “arte”, potrebbe essere saggio smettere di parlare di arte e usare invece la parola “abilità”. E la cosa ha molto senso. Tuttavia non riesco ad ignorare il bisogno di riappropriarsi della parola “arte” e di restituirle il suo significato. Dovrebbe essere una questione di abilità e di capacità tecniche, di maestria a fare il proprio mestiere. Io è questo che intendo quando parlo dell’arte della traduzione. E poi, ammettiamo il vezzo estetico, “l’arte della traduzione” suona proprio bene…

IMMAGINE: St.Jerome – Ink Drawing, di Philip Bitnar

  • 1 Attività dell’uomo basata sul possesso di una tecnica, su un sapere acquisito sia teoricamente che attraverso l’esperienza; in tal senso, coincide anche con un mestiere che richieda un’abilità specifica: a. del fabbro; a. del ferro || a. marziali, tecniche di difesa personale che non prevedono l’uso di armi ma solo abilità fisiche | a regola d’a., alla perfezione | fatto ad a., deliberato, voluto dall’uomo | l’a. del Michelaccio, il non far nulla
  • 2 Produzione di opere adeguate ai canoni estetici del bello, prevalenti nei diversi periodi storici; l’opera stessa così prodotta (spec. se di tipo figurativo); l’insieme di tali opere di un autore, di un periodo: l’a. del Rinascimento || a. maggiori, architettura, scultura, pittura | a. minori, miniatura, ceramica, oreficeria, falegnameria ecc. | a. sacra, destinata ad arredi, edifici di culto | in a., espressione che introduce il nome usato pubblicamente da un artista e diverso da quello anagrafico
  • 3 Attitudine mimica e interpretativa: a. drammatica || figlio d’a., figlio di persone che lavoravano nello stesso ambiente, in partic. nello spettacolo
  • 4 estens. Abilità nel compiere una data azione

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Tower of Babel

Non credo sia necessario essere dei linguisti provetti per notare che la lingua che parliamo sembra plasmare il nostro modo di pensare, e il funzionamento del nostro cervello. Dagli anni ’60, tuttavia, abbiamo praticamente accettato l’idea della grammatica universale proposta da Chomsky, ovverosia la tesi che il cervello umano sia predisposto al linguaggio e che contenga in sé un programma in grado di decifrare le regole comuni a qualsiasi lingua madre.

Grazie a The virtual linguist ho trovato questo interessante articolo su New Scientist a proposito delle tesi dei linguisti Nicholas Evans, dell’Australian National University di Canberra e Stephen Levinson dell’Istitituto Max Planck di Psicolinguistica di Nimega, nei Paesi Bassi. I due sostengono che

il cervello di un bambino non è pre-progammato con regole linguistiche astratte. Le sue impostazioni iniziali invece sono molto più semplici: il primo lavoro del cervello è quello di costruire un cervello molto più complesso. E ciò avviene grazie all’uso di ogni input disponibile, linguaggio compreso. Questo potrebbe significare che i parlanti di lingue diverse hanno anche cervelli diversi, dice Levinson.

E potrebbe significare che quel che Chomsky ed altri definiscono “innato” sia in realtà il prodotto di un “programma” molto più semplice e meno rigido. Evans e Levinson sostengono che non vi siano universali linguistici assoluti, bensì

un misto di tendenze, più o meno forti, che caratterizzano l’ibrido “bio-culturale” che chiamiamo linguaggio.

Il che significa che c’è molto più spazio per le variazioni di quanto non ci si aspetti comunemente. Un passaggio assai interessante sottolinea come

fra gli umani c’è molta più varietà di quanto pensassimo, e i nostri cervelli funzionano diversamente a seconda dell’ambiente linguistico in cui siamo cresciuti.

Ammetto che Psicolinguistica e Neurolinguistica sono due dei campi di ricerca più affascinanti per uno come me, ossessionato dal linguaggio. Tuttavia, al di là della curiosità, credo che questo genere di ricerca spesso affronti problematiche che possono tornare molto utili ad un traduttore che cerchi di spiegare al grande pubblico cosa sia la traduzione, e di favorire la comprensione e il riconoscimento del nostro lavoro. Nell’articolo leggiamo, ad esempio che

Gli studi degli ultimi due decenni hanno mostrato che in molte lingue manca una categoria avverbiale aperta, il che vuol dire che il numero di avverbi disponibili è limitato. […] Più controversa è la tesi di alcuni linguisti secondo cui alcune lingue, come il Salish degli Stretti, parlata da alcune popolazioni indigene delle regioni nord-occidentali dell’America Settentrionale, non farebbero distinzione fra sostantivi e verbi, e che userebbero invece un’unica categoria che comprende eventi, entità e qualità.

Per quanto controversa, quest’ultima ipotesi ci permette di speculare riguardo le implicazioni che un simile fenomeno avrebbe in termini di traduzione. Quanto dovremmo modificare un testo scritto in una lingua simile, se dovessimo tradurlo in italiano? Si tratta di uno di quei casi in cui un esempio piuttosto estremo ci permette di capire a fondo il processo traduttivo e le abilità necessarie ad affrontarlo. E c’è di più. Apparentemente

I kiowa del nord America usano un marcatore plurale che significa “in numero inaspettato”. Usato con il termine “gamba”, il marcatore significa “una o più di due”. Usato con “pietra” significa “soltanto due”.

Ovviamente, se dovessimo tradurre dal kiowa all’italiano, dovremmo chiedere lumi al fine di ottenere maggiori informazioni – quell’uomo ha una gamba sola o ne ha più di due? Informazioni che un parlante kiowa non inserirebbe nell’espressione ma che la mente italofona troverebbe necessarie, non accontentandosi di sapere che qualcuno ha “un numero inaspettato” di gambe.

L’esempio più affascinante citato dall’articolo su New Scientist è

“rawa-dawa”, un’espressione della lingua mundari parlata nel subcontinente indiano, che significa “la sensazione di quando improvvisamente ti rendi conto che puoi fare qualcosa di riprovevole, e non c’è nessun testimone.”

Credo valga la pena far notare ai non-addetti ai lavori che fare da ponte tra differenze linguistiche così fondamentali è il lavoro quotidiano di un traduttore, nonché un esempio perfetto per suscitare nel pubblico una riflessione riguardo le abilità necessarie a superare le sfide che ci troviamo ad affrontare nei nostri spesso sottopagati sforzi di decodificazione e ricodificazione.

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Qualche giorno fa è apparso sul Corriere di Bologna un articolo di Andrea Rinaldi che ha scatenato un putiferio su Biblit, la più grande comunità online di traduttori letterari italiani. L’articolo parla di alcuni scrittori della scena bolognese che si dedicano anche alla traduzione.

Il punto che ha dato il via al dibattito su Biblit era un virgolettato di Alfredo Colitto:

La paga va dal minimo di 4-5 euro a cartella a una buona cifra media che sono 10-12 euro a cartella, poi c’è anche chi paga di più, i curatori arrivano a 10-16 euro a cartella

Ora, tralasciando che la cifra minima indicata è tanto indecente da non meritare neppure considerazione, questa “buona cifra media” è una cifra assurdamente bassa, tenendo conto che si parla di cifre lorde. Il sottoscritto di solito prende un buon 50% in più, anche se devo ammettere che ho avuto la fortuna di lavorare con persone che sanno quanto sia importante la figura del traduttore. In ogni caso, la comunità di Biblit – oltre alla sezione traduttori del Sindacato Nazionale Scrittori – ha reagito in maniera netta perché non si può far passare l’idea che 10-12 euro lordi a cartella siano una “buona cifra”. Perlomeno, leggere questa dichiarazione attribuita ad un traduttore ha destato un certo scalpore. E quindi siamo tutti lieti di sapere che Alfredo Colitto si è scusato per il malinteso, correggendosi nei commenti all’articolo sul sito del Corriere:

Come ho avuto occasione di dire anche in altra sede, l’aggettivo “buona” affiancato a “cifra media”, che mi sembra l’oggetto del contendere, è frutto di un errore, mio o dell’intervistatore, e me ne scuso. Non ritengo affatto che si tratti di una cifra congrua. So bene che il lavoro di traduttore è mal pagato e non è un passatempo, visto che è il mio lavoro principale. Quello che volevo dire è che PURTROPPO 10-12 euro a cartella costituiscono la cifra media offerta da molti editori. Approfitto per aggiungere che tale cifra non consente affatto ai traduttori di vivere dignitosamente del proprio lavoro e non ne riconosce la professionalità . In ogni caso,la parte dell’articolo che riguarda i compensi si intitola appunto MAL PAGATI

Rincuora leggere questa errata corrige, e tuttavia, per rispondere alla parte finale della rettifica, credo che non basti scrivere “mal pagati” se poi nel paragrafo successivo si descrive questa situazione come normale, immutabile, o addirittura destinata a peggiorare, senza  una dichiarazione forte che miri al superamento di questo stato di cose o che ne sottolinei l’assurdità.

In ogni caso, al di là dell’eterna querelle sulla paga del povero traduttore, l’articolo mi ha fatto riflettere sul modo in cui persino i grandi quotidiani parlano della traduzione, in Italia. Articoli troppo spesso banali, superficiali, imprecisi quando non inesatti, oppure sconclusionati, e messi assieme a mo’ di collage. Articoli che non sembrano in grado di contribuire ad un dibattito serio sulla traduzione come disciplina, forse perché non sono quasi mai scritti da traduttori, e a volte pare quasi che gli autori neanche si intendano di traduzione. Questo articolo, per esempio, parte dai best seller scritti e ambientati a Bologna, passa per alcune dichiarazioni estrapolate da interviste diverse e impastate in quel che viene fuori come un pot pourri di banalità:

Non basta conoscere la lingua, serve il contatto diretto con gli autori;

devi conoscere bene i luoghi;

a Bologna si parla in modo diverso che a Napoli o a Roma o a Genova

e poi va a parare sulla paga dei traduttori. La sensazione – non solo mia – è che il giornalista non sapesse neanche lui cosa volesse dire, esattamente. E ancora, se parliamo di euro a cartella, vogliamo spiegare al lettore cosa diavolo sia una cartella? Vogliamo dirgli che nell’editoria si parla di 2000 battute? Vogliamo fare una pur grossolana stima di quella che finisce per essere la paga oraria, così da far davvero capire perché intitoliamo il paragrafo “mal pagati”? Perché il lettore medio non ha giustamente idea di cosa sia una cartella, tantomeno di quanto tempo ci voglia a tradurla, e di conseguenza le cifre sparate nell’articolo gli diranno ben poco. E poi, piuttosto che continuare a ripetergli che i traduttori si meritano più soldi, sarebbe prima il caso di far capire al lettore cosa fa un traduttore, come, e perché. E forse a quel punto sarà più facile convincerlo, senza bisogno di snocciolare numeri.

Lo so, penserete che noi traduttori non siamo mai contenti. Ci lamentiamo che non si parla di noi, e non appena invece si parla di noi, ecco che non ci piace il modo in cui lo si fa. Soltanto che non possiamo davvero accontentarci di articoli come questo.

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Sarà capitato a tutti di imbattersi in un libro nel quale l’accento di determinati personaggi viene reso graficamente con un’ortografia diversa dalla norma. È una tecnica semplice ma molto efficace, molto più del descrivere il modo di parlare di un personaggio. Non bisogna abusarne, certo, ma è probabilmente il metodo migliore. Che succede però quando un traduttore si trova alle prese con un personaggio del genere?

Nel libro La città dei clown, di cui vi ho già parlato, c’è un personaggio chiamato Mugabo, un potentissimo mago africano. Il modo in cui Will Elliott rende graficamente il suo accento fa pensare ad un accento dell’Africa francofona: Mugabo dice ‘treek’, ‘peeg’, ‘geev’ e ‘sometheeng’ (anziché ‘trick’ ‘pig’, ‘give’ e ‘something’), oppure ‘ze’ e ‘zis’ (‘the’, e ‘this’). Fondamentalmente allunga le ‘i’ in ‘ee’ e non riesce a pronunciare bene il fonema ‘th’.

Nel divertentissimo Vodka, ci sei? Sono io, Chelsea, di Chelsea Handler, c’è invece una massaggiatrice (o no?) cinese , che dice ‘wicense’, ‘cwothes’ e ‘wesbian’ (‘license’, ‘clothes’ e ‘lesbian’) oppure ‘fuhst’ e ‘dollah’ (‘first’ e ‘dollars’). Insomma, per quanto possano essere stereotipati, i soliti e ben noti problemi con le ‘l’ e le ‘r’.

Nel meraviglioso Ogni cosa è importante! di Ron Currie Jr (presto in libreria da Strade Blu Mondadori, vi tengo aggiornati) mi sono imbattuto invece in uno steward dal chiaro accento sudamericano, segnalato da variazioni ortografiche come ‘ree-fill’ (‘refill’), ‘ello’ (‘hello’), ‘choo’ (‘you’). Anche lui allunga le ‘i’, si mangia le ‘h’ e pronuncia la ‘y’ come una ‘j’ come mi risulta si faccia nello spagnolo di diversi paesi latini.

Il mio approccio a questi piccoli problemi di traduzione è tanto semplice quanto divertente. Innanzitutto traduco le frasi del personaggio correttamente, poiché l’accento del personaggio, distorcendo fonemi specifici, andrà ovviamente a colpire parole diverse in inglese e in italiano. Dopodiché, per vedere quali, mi metto semplicemente a pronunciare le frasi di quel personaggio con l’accento in questione, e apporto le modifiche necessarie. Sarà che ho sempre avuto un discreto talento per le imitazioni e gli accenti in particolare, ma pare che funzioni.

E allora ecco che Mugabo in italiano dice cose come ‘gonillio’ ‘gazzo’ e ‘guesto’ (‘coniglio’, ‘cazzo’ ‘questo’) ‘palliaccio’ (‘pagliaccio’) o ‘piasce’ (‘piace’). In sostanza, ‘c’ dure troppo dure, ‘c’ dolci troppo dolci, problemi (come quasi tutti i non-italofoni) con la sillaba ‘gli’.

La massaggiatrice cinese, invece, parla di ‘pagale plima’ e così via, tuttavia ho voluto anche darle una ‘s’ tendente alla ‘z’, fenomeno che ho osservato in diverse occasioni, come in ‘Met-ta quezto zu zuo zedele’ e ‘lezbi-kah’.

Alfredo, invece, lo steward presumibilmente messicano, dice ‘Me serve altro café’, ‘Tuto bene’ e ‘Hai tirrato l’agua tipo venti vuolte’, calcando quindi il problema di chi parla spagnolo con le doppie in generale, ma per contro il quasi raddoppiamento che colpisce le ‘r’. Un altro aspetto interessante era l’interferenza fra parole simili nelle due lingue (‘me’, ‘cafè’, ‘agua’). Purtroppo, per mancanza di un grafema adatto, ho dovuto rinunciare a fondere le ‘b’ e le ‘v’ in quel suono intermedio che è uno dei veri tratti distintivi della maggior parte degli accenti di chi parla spagnolo.

In conclusione, quel che faccio è fondamentalmente determinare l’accento, applicarlo alle frasi che quel personaggio dice in italiano, e il gioco è fatto. C’è qualche collega usa un metodo diverso, in questi casi? Oppure che ha qualche altro esempio relativo ad altri accenti che è stato interessante rendere?

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Ho recuperato, grazie a una segnalazione di Daniela Ilieva su Biblit, un altro punto di vista – assai autorevole – sulla traduzione letteraria. In questo caso quel che scriveva Dacia Maraini sul Corriere della Sera qualche anno fa:

[…] il traduttore viene a confrontarsi con la storia dei Paesi e dei diversi sviluppi culturali. I grandi scrittori di solito criticano le convenzioni morali del Paese in cui vivono. Il traduttore deve conoscere e partecipare a queste operazioni critiche? Domande difficili a cui rispondere. Anch’io, intervenendo, mi sono dilungata sulla definizione di stile. Mi piace quella che ne dà Roland Barthes: «Una verticalità carnale». E ricordando le mie fatiche nel tradurre i versi di cristallina perfezione di Emily Dickinson e la prosa dalle lunghe onde musicali di Joseph Conrad, ho voluto testimoniare il dolore, ma anche il piacere sensuale della traduzione. C’ è qualcosa anche dell’accudimento nella pratica del tradurre. Non a caso sono in maggioranza donne quelle che si chinano sul bambino-linguaggio come su una culla preziosa in cui giace un neonato, fortissimo nella sua voracità e voglia di crescere, ma debolissimo nella sua esposta fragilità. A questo proposito si potrebbe dire che la traduzione, proprio per la grande responsabilità che richiede, è davvero poco riconosciuta e poco pagata. Per me decisamente il traduttore dovrebbe avere il nome sulla copertina assieme al nome dell’autore e dovrebbe prendere una percentuale sugli incassi.

Sul finire dell’articolo, la Maraini partiva da una citazione di Paolo Leoncini e Michael Caesar, e conclude con un’interessante similitudine:

La letteratura deve essere «auscultata», dicono i due studiosi, «osservando e accogliendo le sue cavità, le sue potenzialità e non intrappolandola in giudizi estetici». Ovvero mettendo in evidenza l’ importanza della intentio operis, l’ intenzione dell’autore, che non può non incontrarsi e intrecciarsi con quelle dell’interprete. Proprio come il bravo strumentista rispetto al testo musicale, anche il traduttore ha ampia scelta di interpretazione, e sta nella sua intelligenza e passione e capacità inventiva la possibilità di fare rivivere l’ incantesimo dell’opera.

Sarà narcisismo, ma quando leggo queste cose il mio lavoro mi piace ancora di più.

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Laura Prandino, su Biblit, ha segnalato questo articolo dell’Observer, nel quale Tim Parks sostiene che “è tempo di riconoscere il lavoro dei traduttori”, e che non meritiamo di finire anche noi lost in translation.

Parks apre con alcune domande, che insieme alle loro lapidarie risposte sono estremamente efficaci nel dimostrare il punto centrale dell’articolo:

“Chi ha scritto il Milan Kundera che avete tanto amato? Risposta: Michael Henry Heim. E che dire di quell’Orhan Pamuk che pensate sia tanto intelligente? Maureen Freely. E la fantasiosa erudizione di Roberto Calasso? Beh, quella è mia.”

Si tratta di un problema di cui noi traduttori siamo ben consapevoli, ma che a volte persino noi tendiamo a tralasciare quando ripensiamo a ciò che abbiamo letto prima di diventare traduttori. Sembra piuttosto naturale, in realtà, attribuire la bellezza di una storia alla persona il cui nome è stampato in copertina. Dopotutto, i traduttori non dovrebbero aggiungere od omettere o cambiare nulla di significativo, no? Ciononostante, quando il lettore arriva al punto di dimenticarsi che sta leggendo una traduzione, e non è consapevole del processo che ci sta dietro, la cosa infastidisce parecchi di noi, e soprattutto impedisce che la traduzione letteraria venga pienamente riconosciuta e valorizzata. Parks individua un paio di motivi molto semplici, fondamentalmente emotivi:

“Il grande e carismatico scrittore creativo vuole conquistare il mondo. E l’ultima cosa che è disposto ad accettare è che la maggioranza dei suoi lettori non stanno davvero leggendo ciò che ha scritto. E lo stesso vale per i lettori. Vogliono un contatto intimo con la vera grandezza dell’autore. Non vogliono sapere che la prosa in questione è stata scritta in una casetta di Brema da una persona che a malapena arriva a fine mese, o in qualche appartamento di un palazzone di Osaka . Quanti ragazzini vogliono sentirsi dire che la loro JK Rowling è in realtà un pensionato che fuma una sigaretta dopo l’altra?”

Le immagini che Parks tratteggia sono fin troppo familiari, sfortunatamente, e il concetto che esprime chiama in causa la mitologia della letteratura. Qualsiasi cosa abbia l’industria dell’editoria di prestigioso, i traduttori non ne fanno quasi mai parte, indipendentemente da quanti lettori leggono i loro lavori. Non che ci aspettiamo di essere intervistati e idolatrati, dopotutto non contribuiamo alcun contenuto. Tuttavia, è facile rendersi conto che i soldi che guadagniamo non sono in alcun modo proporzionati ai soldi che permettiamo di guadagnare alle case editrici.

Più avanti, Parks scrive:

“Non saprete mai esattamente ciò che ha fatto un traduttore. Il traduttore legge con un’attenzione maniacale alle sfumature e alle implicazioni culturali, consapevole di tutti i libri che stanno dietro a quello che sta traducendo; dopodiché si mette a riscrivere quest’opera assurdamente complessa nella propria lingua, rielaborando ogni cosa, cambiando tutto di modo che tutto resti uguale, o comunque il più vicino possibile alla sua esperienza dell’originale. In ogni frase deve combinare il rispetto e lealtà da un lato e ingegno ed inventiva dall’altra. Immaginate di spostare la Torre di Pisa nel centro di Manhattan e di convincere tutti che si trova nel posto giusto; è questa la portata del compito.”

Mi piace molto, quest’immagine, giacché nelle mie intenzioni uno degli scopi di questo blog è di illustrare e divulgare il mestiere del traduttore letterario, senza troppi tecnicismi da scritti accademici, e penso che questo paragrafo sia davvero un ottima maniera di descrivere in poche parole il processo della traduzione.

Trovate l’articolo qui. Quanto al sottoscritto, è ora di tornare alla mia Torre di Pisa.

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Cavalieri ErrantiSette anni fa, su Biblit, comunità online per traduttori letterari fondata nel 1999 da Marina Rullo, un gruppo di colleghi lanciò un’iniziativa volta a sensibilizzare addetti ai lavori, organi di stampa, e opinione pubblica, riguardo la mancanza del dovuto riconoscimento al lavoro dei traduttori letterari. Con una storica lettera che raccolse centinaia di firme, questo manipolo di eroi lanciò un messaggio chiaro, che venne anche ripreso da diversi giornali, siti, e addirittura da un TG. La raccolta firme andò avanti fino al luglio del 2006 (quando il sottoscritto aveva appena completato la sua prima traduzione per Strade Blu). La speranza era che le cose sarebbero migliorate sensibilmente. A sette anni dalla pubblicazione, e a quattro anni dalla chiusura delle adesioni, è cambiato pochissimo. Il traduttore letterario continua spesso e volentieri a non essere citato nelle recensioni e nelle presentazioni delle sue opere. Mi sembra quindi doveroso non solo riproporre quell’appello ma anche rilanciare una discussione sul futuro, giacché la battaglia dei cavalieri erranti è tutt’altro che finita…

«Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede […] di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. […] Gli si chiede di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare. […] Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui […] un asceta, un eroe essenzialmente disinteressato, pronto a dare tutto se stesso in cambio di un tozzo di pane e a scomparire nel crepuscolo, anonimo e sublime, quando l’epica impresa è finita. Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura».
(Fruttero&Lucentini,
I ferri del mestiere, Einaudi, Torino 2003)

Siamo noi i cavalieri erranti: del sublime non vogliamo dire, ma l’anonimato lo conosciamo bene. Non rivendichiamo eroismi e il crepuscolo è il fondale di tutti i nostri giorni, ma siamo stanchi di lasciare che c’inghiotta a ogni impresa.
Abbiamo nomi e cognomi, dietro i quali convivono la passione per un lavoro che si nutre di silenzio, ma anche un’amara dose di frustrazione perché il mondo che crediamo di abitare a pieno diritto, il mondo delle parole, della letteratura, della saggistica, troppo di rado si accorge e si ricorda di noi.
I nostri editori, è vero, scrivono il nostro nome sui frontespizi, qualche coraggioso persino in copertina: alla menzione sono obbligati da una legge che protegge le elaborazioni creative di un’opera, «quali le traduzioni in altra lingua», e dunque equipara nel diritto la dignità artistica del traduttore a quella dell’autore. Ma solo poche, onorevoli voci di recensori riconoscono piena dignità alla figura del traduttore e poco più numerosi sono i redattori delle pagine culturali di giornali e riviste che si preoccupano di indicarne il nome accanto agli altri dati.
La stessa legge afferma che riassunti, citazioni o riproduzioni di un’opera dell’ingegno debbano essere «sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratta di traduzione, del traduttore», ma l’abitudine consolidata è di riportare passi di un’opera tradotta all’interno di qualsiasi testo o di leggerli all’interno di un programma senza mai citare la persona che quell’opera ha reso disponibile nella nostra lingua.
È alla luce di questa avvilente e quotidiana constatazione che riteniamo giusto rivolgerci al vasto pubblico nel tentativo di uscire da quell’eterno crepuscolo che per le caratteristiche della nostra attività ci riguarda, ma non esaurisce la verità del nostro lavoro. È importante che restiamo discreti, ma non vogliamo essere invisibili.
Al lettore generico può sfuggire, leggendo in italiano un libro non pensato nella sua lingua, che qualcuno deve pur avere dedicato qualche mese della sua vita a tradurre quelle pagine… Ma con gli «addetti ai lavori», con i critici, i recensori, i redattori di pagine culturali, i giornalisti, i conduttori di trasmissioni in cui a qualunque titolo si parli di libri, non ci sentiamo di essere altrettanto indulgenti.
Ci siamo anche noi, siamo parte del processo che dà vita a oggetti importanti: i libri. I libri del pianto e del riso, dell’amore e del dolore, della conoscenza e dell’evasione, i libri che in ogni modo toccano il cuore e la mente delle persone, si devono anche a noi. Desideriamo che il nostro nome sia lì a confermarlo e che la nostra opera non passi sotto silenzio.
Il recensore che si prodiga in elogi dello stile, delle scelte lessicali, delle acrobazie linguistiche di un autore, se ha letto il libro in originale dovrebbe sentire il dovere di commentarne la resa italiana; e se l’ha letto in italiano, dovrebbe ricordarsi che ha letto le parole, le frasi e i ritmi scelti dal traduttore.
Chiediamo il giusto riconoscimento così come siamo pronti ad accettare qualunque critica competente e motivata.
Siamo cavalieri erranti, e non abbiamo paura.

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La città dei clownUn paio d’anni fa ho avuto la fortuna di tradurre The Pilo Family Circus, il romanzo d’esordio di Will Elliott, promettente autore australiano che risiede qui a Brisbane a una manciata di chilometri da me. In Italia il libro è uscito per Strade Blu con il titolo La città dei clown, e –

Aspetta, direte, voi. Ma che c’entra la città dei clown?

Beh, in effetti nulla. Come vedete, il problema della distorsione dei titoli spunta anche in letteratura, non solo al cinema. Qui però ci sono delle buone ragioni. Il romanzo è imperniato sul circo in questione, gestito dalla famiglia Pilo, e più precisamente dai fratelli Kurt e George Pilo. Come dire “Circo Togni”. Soltanto che c’è un problema, visto che un letterale Il circo della famiglia Pilo non avrebbe funzionato, suona artefatto, nessun circo da noi ha un nome tanto lungo. La parola “Pilo”, poi, in certe zone d’Italia, suscita strane connessioni, e ormai, dopo l’impagabile Cetto Laqualunque di Albanese, il problema è nazionale. Immaginate poi, sulla scia dei suddetti Togni, o Orfei, un laconico Circo Pilo. Avrebbe suggerito qualcosa di molto diverso da questo racconto di orrore, pagliacci, acrobati e sdoppiamenti di personalità. Avrebbe fatto pensare alla storia di un uomo solo alle prese con un’estenuante e totalizzante ricerca. Al di là delle facili ironie, ho ancora delle personalissime riserve sul titolo – scelta che non spetta al traduttore – visto che di città non c’è traccia. Il libro comunque è piaciuto.

Ma, come al solito, divago. Quello che vorrei affrontare in questo post è un piccolo caso di studio. Mi sono divertito un mondo a tradurre il peculiare eloquio di uno dei protagonisti, il clown Doopy, che si esprime con uno strano, sgrammaticato ed esilarante linguaggio. Inutile dire che un simile personaggio è per l’autore un’eccellente scusa per dar sfogo alla passione per i giochi di parole. E i giochi di parole, si sa, sono una delle cose meno traducibili di qualsiasi lingua. Ho raccolto alcune delle frasi più interessanti del clown Doopy, ottimi esempi delle sfide quotidiane dei traduttori letterari. In tutti questi casi, le peculiarità dell’eloquio di Doopy erano letteralmente intraducibili, quindi si tratta di un’occasione per vedere all’opera quell’equivalenza dinamica di cui parlavo qualche post addietro, ossia, il bisogno di produrre nel lettore della traduzione un’impressione la più simile possibile a quella che l’originale suscitava nel suo pubblico. Ad esempio:

Who done it, Gonko?” said Doopy. “Who done it? They shouldn’ta oughtn’ta done it, Gonko!”

Al di là delle singole parti, il punto centrale qui era l’eccessiva abbondanza di verbi coniugati erroneamente (who done it anziché who did it, they shouldn’ta oughtn’ta done it invece di they shouldn’t have done it). Dopo qualche tentativo, ho optato per:

Chi è stato a l’ha fatto, Gonko?” chiese Doopy. “Chi è stato a l’ha fatto? Non avrebbero dovuto dover averlo fatto, Gonko!”

La ridondanza verbale di Doopy raggiunge l’apice in quest’altra frase, pronunciata in un momento di grande concitazione:

They done it again, they gone and done did it, they did doggone done do’d it!”

Che, dopo diverse revisioni, è diventata

L’hanno rifatto di nuovo, han preso e l’han far fatto, l’han proprio fatto farlo fanno preso far fatto!”

Come si può facilmente vedere, è stato necessario riformulare completamente queste frasi, immaginarsi un Doopy madrelingua italiano. Quali strafalcioni avrebbe partorito un cervello simile se avesse pensato in italiano? È una bella responsabilità, ma anche un gran bel divertimento. Altre volte Doopy storpia in maniera goffa le frasi idiomatiche, come nel caso seguente:

He pooped the question, Gonko.”

Popped?”

Yeah, that’s what he done. Goshy done went and pooped the question.”

In questo caso, ‘pop the question’ (colloquialismo che significa ‘fare una proposta di matrimonio’) diventa ‘poop the question’, dove ‘poop’ significa ‘fare la cacca’. Qui si trattava di trovare un elemento nella traduzione italiana che si prestasse ad una distorsione altrettanto infelice. Per fortuna non ho dovuto cercare molto, e ho optato per:

Gli ha fatto una prostata di matrimonio, Gonko.”

Le ha fatto una proposta di matrimonio?”

Si, ecco, quello ha fatto. Goshy ha preso, andato e gli ha fatto una prostata di matrimonio.”

Infine, il buffo linguaggio di Doopy mi ha regalato uno dei casi più gustosi di found in translation che mi siano capitati nella mia breve carriera. A un certo punto i clown stanno per sfogare la loro rabbia su uno degli acrobati del circo, e c’è il seguente scambio fra il capo clown Gonko e il nostro Doopy:

[…] What’s the opposite of a facelift?”

Squash smash face,” Doopy said.

Qui ovviamente era essenziale mantenere la consonanza fra ‘squash’ e ‘smash’. E, in pochi secondi, non soltanto avevo ottenuto il risultato sperato, ma la frase suonava addirittura meglio dell’originale, grazie ad una fortunata combinazione di lemmi italiani:

[…]qual è il contrario di un lifting?”

Uno spiaccica schiaccia faccia,” disse Doopy.

L’onomatopea della consonanza in questione lascia immaginare quel che potrebbe capitare alla faccia dell’acrobata in questione, non è vero?

In conclusione, Doopy mi ha regalato un’occasione speciale per esplorare il lato creativo, o meglio ri-creativo della traduzione. Spero che questo piccolo caso di studio senza pretese possa fare un po’ di luce sui dettagli pratici del nostro lavoro, e faccia sì che i lettori possano apprezzare un po’ di più il contributo ‘invisibile’ del traduttore.

Se siete curiosi di scoprire il mondo di Doopy, Gonko, del clown psicopatico JJ e degli altri sinistri personaggi di questo folle circo, andatevi a cercare La città dei clown, Strade Blu Mondadori. Oppure, se sapete l’inglese, cercate l’originale, The Pilo Family Circus. E continuate a leggere questo blog.

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Nel mio primo post sostenevo la necessità di riconoscere a dovere il prezioso lavoro del traduttore. Qualcuno, specie chi non parla una seconda lingua, potrà chiedersi cosa mai faccia un traduttore di tanto speciale, al di là della poetica immagine del contrabbandiere che ha dato il nome a questo blog. Cercherò di spiegarlo in maniera semplice, di modo che anche i non-addetti ai lavori che leggono possano partecipare alla discussione, imparare qualcosa sul nostro lavoro e aiutarci ad andare quel riconoscimento di cui sopra.

Un traduttore letterario è uno scrittore a tutti gli effetti, fama a parte. Certo, io parto da un libro già scritto, ma devo leggerlo più volte (quando c’è il tempo) coglierne lo stile, il tono, i registri, i vari livelli di lettura. Devo individuare le peculiarità linguistiche della voce del narratore e dei vari personaggi rispetto a quella che è la lingua standard. Devo immagazzinare queste ed altre informazioni. Devo digerirle, e mentre lo faccio devo seguire il meglio possibile la miriade di ramificazioni emotive che il libro mi suscita, in modo da farmi un’idea dell’effetto che dovrò ricreare.

Dopodiché comincio a tradurre. La cosa più ovvia, e anche la più facile, è traghettare nella lingua d’arrivo gli eventi, le immagini, gli elementi per così dire informativi del testo. Però bisogna anche che la voce dell’autore, il suo stile, e quindi il suo registro, il suo uso della punteggiatura, gli aspetti, appunto formali, vengano resi di modo che la traduzione rappresenti la cosa più vicina all’originale che si possa scrivere nella lingua d’arrivo. E qui cominciano i problemi, perché gli aspetti formali sono specifici di ogni lingua, e quindi è un’equivalenza dinamica e non formale, per dirla con Nida, quella che si cerca, una maniera di suscitare nel lettore della traduzione gli effetti che l’originale ha suscitato in me.

Dopodiché, voglio anche che le voci e la psicologia dei personaggi mantengano i loro tratti distintivi, trovando soluzioni per far sì che, per quanto possibile, vengano percepiti dal lettore della traduzione così com’erano percepiti dal pubblico dell’originale. E qui entrano in gioco fattori culturali, economici, sociali e politici, relativi non alla lingua, ma alle comunità che la parlano, ai diversi gruppi all’interno di quelle comunità, al modo in cui interagiscono. Si tratta di far capire a un italiano la percezione che un fattore texano ha del colletto bianco di Boston, per dire. E’ come far capire a un australiano il rapporto fra bresciani e bergamaschi. A parte che non posso spiegarglielo. Devo rendere l’idea tramite la mia traduzione – odio le note a piè pagina in narrativa. È una bella sfida, insomma.

E ancora, l’atmosfera, le sensazioni, i sentimenti, le idee, devono mantenere la potenza e l’impatto che l’autore ha conferito loro, anche e soprattutto quando non appartengono davvero alla cultura della lingua d’arrivo. Questo è il contrabbando di cui parlavamo qualche giorno fa. Il lettore si ritrova ad immedesimarsi in una mente che funziona diversamente dalla sua. Nuove connessioni prendono vita nel suo cervello. Le possibilità di crescita, umana e culturale, sono letteralmente infinite, se mi perdonate l’immodestia.

Vale anche la pena ricordare che dopo aver fatto tutto questo, e finita la prima versione, me ne restano altre cinque. In genere, alla sesta stesura, dopo aver letto il libro otto volte in due lingue, ogni cosa sembra finalmente al suo posto. Di solito sono passati due o tre mesi.

Insomma, quando leggete un libro di un autore straniero, e questo scorre, in bell’italiano, vi porta lungo il Mississippi o chissà dove, e pur straniti e straniati da quel luogo alieno riuscite ad entrarci, a capirlo, vuol dire che il traduttore ha fatto un gran bel lavoro. E il paradosso, la nostra invisibilità, per dirla con Venuti, sta proprio nel fatto che quando lavoriamo bene uno non si accorge del nostro intervento. Sarebbe bello se invece ci abituassimo a considerare quell’anello fondamentale che è il traduttore.

Tolta di mezzo questa necessaria ma pur sempre vaga introduzione del quadro d’insieme, nelle prossime settimane cercherò di affrontare alcuni di questi aspetti tramite esempi e casi di studio. Non mancate.

P.S. Un grazie di cuore a coloro che stanno seguendo questo blog nonostante sia soltanto in rodaggio. Vuol dire molto.

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