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Posts Tagged ‘Biblit’

Qualche giorno fa è apparso sul Corriere di Bologna un articolo di Andrea Rinaldi che ha scatenato un putiferio su Biblit, la più grande comunità online di traduttori letterari italiani. L’articolo parla di alcuni scrittori della scena bolognese che si dedicano anche alla traduzione.

Il punto che ha dato il via al dibattito su Biblit era un virgolettato di Alfredo Colitto:

La paga va dal minimo di 4-5 euro a cartella a una buona cifra media che sono 10-12 euro a cartella, poi c’è anche chi paga di più, i curatori arrivano a 10-16 euro a cartella

Ora, tralasciando che la cifra minima indicata è tanto indecente da non meritare neppure considerazione, questa “buona cifra media” è una cifra assurdamente bassa, tenendo conto che si parla di cifre lorde. Il sottoscritto di solito prende un buon 50% in più, anche se devo ammettere che ho avuto la fortuna di lavorare con persone che sanno quanto sia importante la figura del traduttore. In ogni caso, la comunità di Biblit – oltre alla sezione traduttori del Sindacato Nazionale Scrittori – ha reagito in maniera netta perché non si può far passare l’idea che 10-12 euro lordi a cartella siano una “buona cifra”. Perlomeno, leggere questa dichiarazione attribuita ad un traduttore ha destato un certo scalpore. E quindi siamo tutti lieti di sapere che Alfredo Colitto si è scusato per il malinteso, correggendosi nei commenti all’articolo sul sito del Corriere:

Come ho avuto occasione di dire anche in altra sede, l’aggettivo “buona” affiancato a “cifra media”, che mi sembra l’oggetto del contendere, è frutto di un errore, mio o dell’intervistatore, e me ne scuso. Non ritengo affatto che si tratti di una cifra congrua. So bene che il lavoro di traduttore è mal pagato e non è un passatempo, visto che è il mio lavoro principale. Quello che volevo dire è che PURTROPPO 10-12 euro a cartella costituiscono la cifra media offerta da molti editori. Approfitto per aggiungere che tale cifra non consente affatto ai traduttori di vivere dignitosamente del proprio lavoro e non ne riconosce la professionalità . In ogni caso,la parte dell’articolo che riguarda i compensi si intitola appunto MAL PAGATI

Rincuora leggere questa errata corrige, e tuttavia, per rispondere alla parte finale della rettifica, credo che non basti scrivere “mal pagati” se poi nel paragrafo successivo si descrive questa situazione come normale, immutabile, o addirittura destinata a peggiorare, senza  una dichiarazione forte che miri al superamento di questo stato di cose o che ne sottolinei l’assurdità.

In ogni caso, al di là dell’eterna querelle sulla paga del povero traduttore, l’articolo mi ha fatto riflettere sul modo in cui persino i grandi quotidiani parlano della traduzione, in Italia. Articoli troppo spesso banali, superficiali, imprecisi quando non inesatti, oppure sconclusionati, e messi assieme a mo’ di collage. Articoli che non sembrano in grado di contribuire ad un dibattito serio sulla traduzione come disciplina, forse perché non sono quasi mai scritti da traduttori, e a volte pare quasi che gli autori neanche si intendano di traduzione. Questo articolo, per esempio, parte dai best seller scritti e ambientati a Bologna, passa per alcune dichiarazioni estrapolate da interviste diverse e impastate in quel che viene fuori come un pot pourri di banalità:

Non basta conoscere la lingua, serve il contatto diretto con gli autori;

devi conoscere bene i luoghi;

a Bologna si parla in modo diverso che a Napoli o a Roma o a Genova

e poi va a parare sulla paga dei traduttori. La sensazione – non solo mia – è che il giornalista non sapesse neanche lui cosa volesse dire, esattamente. E ancora, se parliamo di euro a cartella, vogliamo spiegare al lettore cosa diavolo sia una cartella? Vogliamo dirgli che nell’editoria si parla di 2000 battute? Vogliamo fare una pur grossolana stima di quella che finisce per essere la paga oraria, così da far davvero capire perché intitoliamo il paragrafo “mal pagati”? Perché il lettore medio non ha giustamente idea di cosa sia una cartella, tantomeno di quanto tempo ci voglia a tradurla, e di conseguenza le cifre sparate nell’articolo gli diranno ben poco. E poi, piuttosto che continuare a ripetergli che i traduttori si meritano più soldi, sarebbe prima il caso di far capire al lettore cosa fa un traduttore, come, e perché. E forse a quel punto sarà più facile convincerlo, senza bisogno di snocciolare numeri.

Lo so, penserete che noi traduttori non siamo mai contenti. Ci lamentiamo che non si parla di noi, e non appena invece si parla di noi, ecco che non ci piace il modo in cui lo si fa. Soltanto che non possiamo davvero accontentarci di articoli come questo.

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Ho recuperato, grazie a una segnalazione di Daniela Ilieva su Biblit, un altro punto di vista – assai autorevole – sulla traduzione letteraria. In questo caso quel che scriveva Dacia Maraini sul Corriere della Sera qualche anno fa:

[…] il traduttore viene a confrontarsi con la storia dei Paesi e dei diversi sviluppi culturali. I grandi scrittori di solito criticano le convenzioni morali del Paese in cui vivono. Il traduttore deve conoscere e partecipare a queste operazioni critiche? Domande difficili a cui rispondere. Anch’io, intervenendo, mi sono dilungata sulla definizione di stile. Mi piace quella che ne dà Roland Barthes: «Una verticalità carnale». E ricordando le mie fatiche nel tradurre i versi di cristallina perfezione di Emily Dickinson e la prosa dalle lunghe onde musicali di Joseph Conrad, ho voluto testimoniare il dolore, ma anche il piacere sensuale della traduzione. C’ è qualcosa anche dell’accudimento nella pratica del tradurre. Non a caso sono in maggioranza donne quelle che si chinano sul bambino-linguaggio come su una culla preziosa in cui giace un neonato, fortissimo nella sua voracità e voglia di crescere, ma debolissimo nella sua esposta fragilità. A questo proposito si potrebbe dire che la traduzione, proprio per la grande responsabilità che richiede, è davvero poco riconosciuta e poco pagata. Per me decisamente il traduttore dovrebbe avere il nome sulla copertina assieme al nome dell’autore e dovrebbe prendere una percentuale sugli incassi.

Sul finire dell’articolo, la Maraini partiva da una citazione di Paolo Leoncini e Michael Caesar, e conclude con un’interessante similitudine:

La letteratura deve essere «auscultata», dicono i due studiosi, «osservando e accogliendo le sue cavità, le sue potenzialità e non intrappolandola in giudizi estetici». Ovvero mettendo in evidenza l’ importanza della intentio operis, l’ intenzione dell’autore, che non può non incontrarsi e intrecciarsi con quelle dell’interprete. Proprio come il bravo strumentista rispetto al testo musicale, anche il traduttore ha ampia scelta di interpretazione, e sta nella sua intelligenza e passione e capacità inventiva la possibilità di fare rivivere l’ incantesimo dell’opera.

Sarà narcisismo, ma quando leggo queste cose il mio lavoro mi piace ancora di più.

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Thanks to Daniela Ilieva on Biblit, I found another point of view – and quite a knowledgeable one, at that – on literary translation. In this case what Dacia Maraini wrote on Il Corriere della Sera a few years ago. I’ll offer a quick translation of my two favourite passages:

[…] the translator deals with the history of different countries and cultural developments. Great writers usually criticise the moral conventions of the countries they live in. Does the translator have to know and be a part of these critical operations? These questions are hard to answer. During my speech, I talked extensively about the definition of style. I like the one Roland Barthes gave: “a carnal verticality”. And thinking back to my efforts while translating the crystal-clear perfection of Emily Dickinson’s verses and the long musical waves of Joseph Conrad’s prose, I wanted to share the pain, but also the sensual pleasure of translating. There is something akin to caring for someone, in the practice of translation. Not coincidentally, it’s mostly women who lean on the language-child like on a precious crib where a newborn lies, a newborn so strong in his voracity and will to grow, and the same time so weak in his exposed fragility. It can be argued that translation, especially when we consider the great responsibility involved, really is under-acknowledged and underpaid. I think that translators should definitely have their names on the cover, together with the authors’, and should get a percentage of the royalties.

Towards the end of the article, Maraini, starting with a quote from Paolo Leoncini e Michael Caesar, concludes with an interesting simile:

Literature needs to be “sounded”, the two scholars say, “by observing and accepting its cavities and its potential, without trapping it in aesthetical judgement.” Which means underlining the importance of what we call intentio operis, the author’s intention, which has to meet and interweave with the interpreter’s. Just like good instrumentalists dealing with a musical work, translators have a wide range of choices on how to approach a text, and it’s their intelligence, passion and inventiveness that give them the chance of bringing the original work’s spell back to life.

Call me narcissistic, but when I read this sort of things, I like my job even more.

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Laura Prandino, su Biblit, ha segnalato questo articolo dell’Observer, nel quale Tim Parks sostiene che “è tempo di riconoscere il lavoro dei traduttori”, e che non meritiamo di finire anche noi lost in translation.

Parks apre con alcune domande, che insieme alle loro lapidarie risposte sono estremamente efficaci nel dimostrare il punto centrale dell’articolo:

“Chi ha scritto il Milan Kundera che avete tanto amato? Risposta: Michael Henry Heim. E che dire di quell’Orhan Pamuk che pensate sia tanto intelligente? Maureen Freely. E la fantasiosa erudizione di Roberto Calasso? Beh, quella è mia.”

Si tratta di un problema di cui noi traduttori siamo ben consapevoli, ma che a volte persino noi tendiamo a tralasciare quando ripensiamo a ciò che abbiamo letto prima di diventare traduttori. Sembra piuttosto naturale, in realtà, attribuire la bellezza di una storia alla persona il cui nome è stampato in copertina. Dopotutto, i traduttori non dovrebbero aggiungere od omettere o cambiare nulla di significativo, no? Ciononostante, quando il lettore arriva al punto di dimenticarsi che sta leggendo una traduzione, e non è consapevole del processo che ci sta dietro, la cosa infastidisce parecchi di noi, e soprattutto impedisce che la traduzione letteraria venga pienamente riconosciuta e valorizzata. Parks individua un paio di motivi molto semplici, fondamentalmente emotivi:

“Il grande e carismatico scrittore creativo vuole conquistare il mondo. E l’ultima cosa che è disposto ad accettare è che la maggioranza dei suoi lettori non stanno davvero leggendo ciò che ha scritto. E lo stesso vale per i lettori. Vogliono un contatto intimo con la vera grandezza dell’autore. Non vogliono sapere che la prosa in questione è stata scritta in una casetta di Brema da una persona che a malapena arriva a fine mese, o in qualche appartamento di un palazzone di Osaka . Quanti ragazzini vogliono sentirsi dire che la loro JK Rowling è in realtà un pensionato che fuma una sigaretta dopo l’altra?”

Le immagini che Parks tratteggia sono fin troppo familiari, sfortunatamente, e il concetto che esprime chiama in causa la mitologia della letteratura. Qualsiasi cosa abbia l’industria dell’editoria di prestigioso, i traduttori non ne fanno quasi mai parte, indipendentemente da quanti lettori leggono i loro lavori. Non che ci aspettiamo di essere intervistati e idolatrati, dopotutto non contribuiamo alcun contenuto. Tuttavia, è facile rendersi conto che i soldi che guadagniamo non sono in alcun modo proporzionati ai soldi che permettiamo di guadagnare alle case editrici.

Più avanti, Parks scrive:

“Non saprete mai esattamente ciò che ha fatto un traduttore. Il traduttore legge con un’attenzione maniacale alle sfumature e alle implicazioni culturali, consapevole di tutti i libri che stanno dietro a quello che sta traducendo; dopodiché si mette a riscrivere quest’opera assurdamente complessa nella propria lingua, rielaborando ogni cosa, cambiando tutto di modo che tutto resti uguale, o comunque il più vicino possibile alla sua esperienza dell’originale. In ogni frase deve combinare il rispetto e lealtà da un lato e ingegno ed inventiva dall’altra. Immaginate di spostare la Torre di Pisa nel centro di Manhattan e di convincere tutti che si trova nel posto giusto; è questa la portata del compito.”

Mi piace molto, quest’immagine, giacché nelle mie intenzioni uno degli scopi di questo blog è di illustrare e divulgare il mestiere del traduttore letterario, senza troppi tecnicismi da scritti accademici, e penso che questo paragrafo sia davvero un ottima maniera di descrivere in poche parole il processo della traduzione.

Trovate l’articolo qui. Quanto al sottoscritto, è ora di tornare alla mia Torre di Pisa.

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Thanks to Laura Prandino, on Biblit, I found this article from The Observer, in which  Tim Parks says “it’s time to acknowledge translators”, because “we don’t deserve to be lost in translation.”

He starts with a few questions, and the short answers he gives to them are extremely effective in driving home the main point of the article:

“Who wrote the Milan Kundera you love? Answer: Michael Henry Heim. And what about the Orhan Pamuk you think is so smart? Maureen Freely. Or the imaginatively erudite Roberto Calasso? Well, that was me.”

This is an issue that we, as translators, are very aware of, but even we might overlook it when thinking back to what we read before becoming translators. It seems quite natural, really, to give credit for the beauty we find in a story to the guy whose name is on the cover. After all, translators shouldn’t add or omit or change anything significant, right? Nevertheless, when the reader gets to the point of forgetting that he is even reading a translation, and is not aware of the process involved, it irks most of us, and above all it prevents literary translation from being fully recognised and valued. Parks points out a couple of very simple, emotional reasons for this:

“The great, charismatic, creative writer wants to be all over the globe. And the last thing he wants to accept is that the majority of his readers are not really reading him. His readers feel the same. They want intimate contact with true greatness. They don’t want to know that this prose was written on survival wages in a maisonette in Bremen, or a high-rise flat in the suburbs of Osaka. Which kid wants to hear that her JK Rowling is actually a chain-smoking pensioner?”

The images he paints are all too familiar, unfortunately, and the whole concept calls into question the mythology of literature. Whatever is glamourous about the publishing industry, though, translators are very seldom a part of it, no matter how many people are reading their works. We get our flat fee per word or per page, and then that’s it. Not that we expect to be interviewed and idolised, after all we don’t come up with any content. Still, it’s easy to see that the money we get is in no way proportional to the money we allow publishers to make.

Later on in the article, Parks writes:

You’ll never know exactly what a translator has done. He reads with maniacal attention to nuance and cultural implication, conscious of all the books that stand behind this one; then he sets out to rewrite this impossibly complex thing in his own language, re-elaborating everything, changing everything in order that it remain the same, or as close as possible to his experience of the original. In every sentence the most loyal respect must combine with the most resourceful inventiveness. Imagine shifting the Tower of Pisa into downtown Manhattan and convincing everyone it’s in the right place; that’s the scale of the task.”

I loved this one, as in my intentions one of the purposes of this blog is to explain and popularise the work of the literary translator, without many of the technicalities of academic writing, and I think this is another great way to describe the process in a few words.

You can read the full article here. As for myself, I need to get back to my own current Tower of Pisa.

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Cavalieri ErrantiSette anni fa, su Biblit, comunità online per traduttori letterari fondata nel 1999 da Marina Rullo, un gruppo di colleghi lanciò un’iniziativa volta a sensibilizzare addetti ai lavori, organi di stampa, e opinione pubblica, riguardo la mancanza del dovuto riconoscimento al lavoro dei traduttori letterari. Con una storica lettera che raccolse centinaia di firme, questo manipolo di eroi lanciò un messaggio chiaro, che venne anche ripreso da diversi giornali, siti, e addirittura da un TG. La raccolta firme andò avanti fino al luglio del 2006 (quando il sottoscritto aveva appena completato la sua prima traduzione per Strade Blu). La speranza era che le cose sarebbero migliorate sensibilmente. A sette anni dalla pubblicazione, e a quattro anni dalla chiusura delle adesioni, è cambiato pochissimo. Il traduttore letterario continua spesso e volentieri a non essere citato nelle recensioni e nelle presentazioni delle sue opere. Mi sembra quindi doveroso non solo riproporre quell’appello ma anche rilanciare una discussione sul futuro, giacché la battaglia dei cavalieri erranti è tutt’altro che finita…

«Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede […] di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. […] Gli si chiede di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare. […] Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui […] un asceta, un eroe essenzialmente disinteressato, pronto a dare tutto se stesso in cambio di un tozzo di pane e a scomparire nel crepuscolo, anonimo e sublime, quando l’epica impresa è finita. Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura».
(Fruttero&Lucentini,
I ferri del mestiere, Einaudi, Torino 2003)

Siamo noi i cavalieri erranti: del sublime non vogliamo dire, ma l’anonimato lo conosciamo bene. Non rivendichiamo eroismi e il crepuscolo è il fondale di tutti i nostri giorni, ma siamo stanchi di lasciare che c’inghiotta a ogni impresa.
Abbiamo nomi e cognomi, dietro i quali convivono la passione per un lavoro che si nutre di silenzio, ma anche un’amara dose di frustrazione perché il mondo che crediamo di abitare a pieno diritto, il mondo delle parole, della letteratura, della saggistica, troppo di rado si accorge e si ricorda di noi.
I nostri editori, è vero, scrivono il nostro nome sui frontespizi, qualche coraggioso persino in copertina: alla menzione sono obbligati da una legge che protegge le elaborazioni creative di un’opera, «quali le traduzioni in altra lingua», e dunque equipara nel diritto la dignità artistica del traduttore a quella dell’autore. Ma solo poche, onorevoli voci di recensori riconoscono piena dignità alla figura del traduttore e poco più numerosi sono i redattori delle pagine culturali di giornali e riviste che si preoccupano di indicarne il nome accanto agli altri dati.
La stessa legge afferma che riassunti, citazioni o riproduzioni di un’opera dell’ingegno debbano essere «sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratta di traduzione, del traduttore», ma l’abitudine consolidata è di riportare passi di un’opera tradotta all’interno di qualsiasi testo o di leggerli all’interno di un programma senza mai citare la persona che quell’opera ha reso disponibile nella nostra lingua.
È alla luce di questa avvilente e quotidiana constatazione che riteniamo giusto rivolgerci al vasto pubblico nel tentativo di uscire da quell’eterno crepuscolo che per le caratteristiche della nostra attività ci riguarda, ma non esaurisce la verità del nostro lavoro. È importante che restiamo discreti, ma non vogliamo essere invisibili.
Al lettore generico può sfuggire, leggendo in italiano un libro non pensato nella sua lingua, che qualcuno deve pur avere dedicato qualche mese della sua vita a tradurre quelle pagine… Ma con gli «addetti ai lavori», con i critici, i recensori, i redattori di pagine culturali, i giornalisti, i conduttori di trasmissioni in cui a qualunque titolo si parli di libri, non ci sentiamo di essere altrettanto indulgenti.
Ci siamo anche noi, siamo parte del processo che dà vita a oggetti importanti: i libri. I libri del pianto e del riso, dell’amore e del dolore, della conoscenza e dell’evasione, i libri che in ogni modo toccano il cuore e la mente delle persone, si devono anche a noi. Desideriamo che il nostro nome sia lì a confermarlo e che la nostra opera non passi sotto silenzio.
Il recensore che si prodiga in elogi dello stile, delle scelte lessicali, delle acrobazie linguistiche di un autore, se ha letto il libro in originale dovrebbe sentire il dovere di commentarne la resa italiana; e se l’ha letto in italiano, dovrebbe ricordarsi che ha letto le parole, le frasi e i ritmi scelti dal traduttore.
Chiediamo il giusto riconoscimento così come siamo pronti ad accettare qualunque critica competente e motivata.
Siamo cavalieri erranti, e non abbiamo paura.

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Cavalieri ErrantiSeven years ago on Biblit – an Italian online community for literary translators started in 1999 by Marina Rullo – a group of colleagues published an open letter to the Italian press, which was covered by several newspapers, websites, and even a TV news report. Hundreds of literary translators signed on, until July 2006 when the petition ended. The aim was to help literary translators get the visibility they deserve. I was still studying to become a translator when the letter was published, and by the time the petition ended I had just completed my first translation. I had high hopes that these heroic colleagues would spur a big change in the industry. Several years later, very little has changed. Literary translators, especially in Italy, are still rarely mentioned in the reviews of their own work. Therefore, I feel the need to republish that letter and hopefully making it the starting point for a new discussion about the future, since the battle of the knights-errant  is far from over…

«The problem of translating is actually the very same as that of writing, and the translator is at the heart of it perhaps even more so than the author. He is asked […] to master not just a language, but everything that lies behind it, that is to say, an entire culture, an entire world, an entire way of viewing the world. […] He is asked to pull off this arduous yet impassioned effort without calling attention to himself. […] He is asked to consider the fact that the reader isn’t even aware of him his greatest triumph […] an ascetic, an essentially selfless hero, ready to give his all in exchange for very little and to disappear into the twilight, anonymous and sublime, when the epic deed is accomplished. The translator is literature’s last, true knight-errant».
(Fruttero&Lucentini,
I ferri del mestiere (Tools of the Trade), Einaudi, Torino 2003)

We are knights-errant: sublime, we can’t say, but we know anonymity all too well. We do not claim heroism, and twilight is the backdrop for all our days, but we are tired of letting it swallow us up at every endeavor.
We have first and last names, behind which lie a passion for a work that is nurtured in silence, as well as a bitter dose of frustration because the world we feel we have every right to occupy, the world of words, of literature, fiction and non-fiction, all too rarely notices and remembers us.
Our publishers, it’s true, print our name on the title page, and some of the more daring ones even put it on the cover: they are bound to mention it by a law that protects creative derivatives of a work, «such as translations in another language», thereby rendering the artistic dignity of the translator equal to that of the author under the law. But only a few, honorable reviewers’ voices concede full dignity to the figure of the translator, and the editors of cultural pages of newspapers and magazines who bother to indicate the translator’s name along with other information are scarcely more numerous.
The same law affirms that summaries, citations or reproductions of an intellectual work must be «accompanied always by mention of the title of the work, and the names of the author, publisher and, in the case of a translation, the translator», yet the established practice is to replicate passages from a translated work within other texts or read them in the context of a program without ever citing the person who made that work available in our language.
In the light of this debasing, routine fact, we consider it only just to turn to the broader public in an attempt to break out of that eternal twilight that, while it may regard the nature of what we do, does not reflect the full truth about our work. Though it is important that we remain discreet, we do not want to be invisible.
The fact that someone must certainly have dedicated several months of his/her life to translating the pages of a book not originally conceived in the reader’s language may escape the general reader of that book…  But we do not feel equally as indulgent toward those who are «insiders»: the critics, reviewers, editors of cultural pages, journalists, and hosts of radio and television programs in which books are spoken of.
We too exist; we too are part of the process that generates those very important items: books.  Books that make you cry and make you laugh, books of love and sorrow, books that bring knowledge and allow escape, books that in some way touch people’s hearts and minds, are due to us as well.  We want our name to be there to confirm it and we do not want our work to pass unnoticed in silence.
A reviewer who lavishes praise on an author’s style, lexical choices and linguistic acrobatics should feel it his duty to comment on its translated version if he has read the book in the original; and if he has read it in translation, he should remember that what he has read are the words, sentences, and rhythms chosen by the translator.
We demand just recognition at the same time that we are prepared to accept any qualified, well-founded criticism.
We are knights-errant, and we are not afraid.

(English version by Anna Milano Appel)

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