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Posts Tagged ‘Galveston’

Google Street View CarNegli ultimi quindici anni la tecnologia ha trasformato radicalmente il modo di lavorare dei traduttori. Una volta si passava la maggior parte del tempo a sfogliare glossari e pesantissimi dizionari cartacei, a perdere la vista fra le righe piccole alla ricerca di una frase idiomatica, e soprattutto si visitava regolarmente la biblioteca locale per ricercare i riferimenti più oscuri.

Negli anni ’90 arrivarono i dizionari su CD-rom. Si scriveva una parola, e saltava fuori all’istante. Scrivevi la parola chiave della frase idiomatica che cercavi, e una frazione di secondo dopo eccola lì, bella evidenziata. Oggi ci appare normale, ma all’inizio doveva sembrare una specie di magia. Questi sviluppi, relativamente recenti, hanno davvero dato una spinta alla produttività dei traduttori, riducendone al contempo l’ansia, la depressione e la frustrazione – e non è poco. Ma era soltanto l’inizio. Quando Internet divenne un lusso alla portata di molti, aprì spazi nei quali si potevano scandagliare giganteschi archivi a velocità mai immaginate prima. Le directory di Yahoo! erano enormi e pronte per la ricerca. Si poteva stare meglio di così? Certo che sì. Entrò in scena Google. Avanti veloce, e tredici anni dopo Google è lo strumento che uso di più nel mio lavoro di traduttore.

Se la maggior parte dei miei colleghi confermerà di usare Google più di qualsiasi altro strumento, e se chiunque può facilmente capire il perché, molte meno persone penserebbero che anche Street View è uno strumento prezioso per il nostro lavoro.

Google Street View è semplicemente fantastico. In molti lo usano per mostrare agli amici dove sono stati in vacanza, o la via dove sono cresciuti. Ad altri piace farsi un’idea della zona nella quale pensano di prenotare un albergo o di avventurarsi a tarda sera per un concerto. Chi ha un sacco di tempo libero si perde virtualmente per le strade di città sconosciute. Insomma, è uno strumento prezioso nella vita quotidiana e una manna dal cielo per i curiosi cronici.

Come ho già detto, pochi immaginano che Street View sia uno strumento prezioso per un traduttore. Quando in un testo incappo in un riferimento ad un luogo, vado subito a cercarlo con Google, controllo se esiste, apro la corrispondente pagina di Wikipedia, trovo qualche immagine, magari un sito turistico. I siti turistici e le gallerie fotografiche, tuttavia, si limitano spesso a mostrare la attrazioni principali – senza contare che troverete milioni di immagini di ogni angolo di Parigi, ma per quanto riguarda una cittadina della campagna texana, beh… quella è un’altra storia. Grazie a questo strumento, però, il traduttore può facilmente farsi un’idea molto precisa persino dei luoghi meno conosciuti.

Stewart Beach Park, Galveston, TX

Traducendo Galveston, lo straordinario esordio di Nic Pizzolatto, mi sono letteralmente perso per le strade fatiscenti di quell’isola, “percorrendo” il lungomare per vedere quel che stavano vedendo i personaggi. Ok, i bar e gli alberghi di cui scrive Pizzolatto non c’erano (ce n’erano però tantissimi che corrispondevano alla sua descrizione)  ma in ogni caso sono riuscito a farmi un’idea dell’atmosfera dell’isola di Galveston. Va da sé che si può tranquillamente tradurre senza avere la minima idea di come siano i luoghi descritti, e innumerevoli scrittori hanno ambientato le proprie storie in luoghi esotici pur senza esserci mai stati, e senza averne visto una singola immagine. E probabilmente si tratta di una delle abilità più importanti per un autore, la capacità di immaginare l’aspetto, gli odori, i suoni, le sensazioni di un luogo.

Ciononostante, la possibilità di avere perlomeno un’impressione visiva può fare una grande differenza quando bisogna scegliere fra due quasi-sinonimi, e ci permette di visualizzare gli eventi con molta più accuratezza, aiutandoci quindi a dissipare eventuali dubbi relativi all’ambientazione, e di conseguenza a produrre una traduzione più accurata.

O Toole's Pub, Chicago, IL

Nel suo sorprendente romanzo Ogni cosa è importante! Ron Currie, Jr. nomina numerosissimi bar, ristoranti, negozi. Con mio grande stupore, quella volta mi accorsi che esistevano tutti nel mondo reale. Sia per un traduttore sia per un semplice lettore, poter stare davanti al pub di Chicago nel quale il protagonista si sta ubriacando in compagnia del suo amico amputato e tossicodipendente di certo aggiunge valore all’esperienza e, molto semplicemente, un’esperienza di lettura più intensa permette al traduttore di lavorare meglio.

C’è qualche altro collega che usa Street View nello stesso modo, o per altri scopi connessi al lavoro?

P.S. è interessante notare come Google Street View si sia rivelato per me infinitamente più utile del sorprendente ma pur sempre pessimo Google Translate.

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Google Street View CarIn the last fifteen years technology has radically transformed the way in which translators work. Translators used to spend most of their time browsing through heavy paper dictionaries and glossaries, lose their eyesight in the small lines of a definition to look for an idiomatic phrase, and planned regular trips to the local library to research the most puzzling references.

In the 1990s dictionaries started to be published on CD. You wrote the word, it popped up. You wrote the key word of the idiom you were looking for, and there it was, highlighted in a split second. It sounds normal, today, but it must have seemed like magic, at first. This relatively recent development truly boosted translators’ productivity, while reducing anxiety, depression and frustration – not a mean feat. And that was just the beginning. When the Internet became affordable for the average translator working from home, it opened up spaces where one could research huge directories, at speeds never imagined before. Yahoo!’s directories where huge and searchable. Could it get any better than that? Of course it could. Enter Google. Fast-forward to thirteen years later, and Google is the main tool I use in my work as a translator.

If most translators would probably confirm that they use Google more than any other tool, and if the average person can easily understand why that is, fewer people would guess that Street View is a precious tool in our trade.

Google Street View is nothing short of awesome. Many people use it to show their friends where they have been on holiday, or the street where they grew up. Others like to get a feel of an area before booking a hotel or venturing out to a late-night concert. Those with a lot of spare time simply get virtually lost through the streets of an unknown foreign city. It’s a precious tool for everyday life and a bonanza for the chronically curious.

As I said, not many people would assume that Street View is an amazing tool for literary translators. When I encounter a reference to some place in a text, I immediately Google it, check out if it exists, check the Wikipedia entry for it, find a few pictures, maybe a tourism website. Tourist websites and photo galleries, though, are pretty much limited to the main attractions – not to mention that you’ll find countless pictures of Paris, but a small town in rural Texas, well… that’s another story. With this kind of tool, the translator can easily get a very precise idea of the most obscure place where a story is set.

Stewart Beach Park, Galveston, TXWhile translating Galveston, the amazing debut by Nic Pizzolatto, I truly got lost through the dingy streets of that Texan island, I “walked” along the seaside to see what the characters where seeing. Ok, the businesses and addresses he wrote about were not really there (although countless others, of the same kind, were) but I got the feeling, the atmosphere of Galveston island. Needless to say, one can of course translate without having the vaguest idea of what a place looks like, and writers used to set their stories in exotic places without having been there, and without having seen a single picture of them. And that’s probably one of the greatest skill an author needs, the ability to imagine how a place looks, smells, sounds, feels like.

Still, being able to get at least a visual impression can make all the difference when we have to establish which one of two quasi-synonyms we need to use, and allows us to visualise the events a lot better, which certainly helps to dissipate any doubts about the setting, and therefore to produce and accurate and meaningful translation.

O Toole's Pub, Chicago, ILIn his brilliant novel Everything Matters! Ron Currie, Jr. mentions heaps of bars, restaurants and shops. Much to my surprise, that time I discovered that they all exist in the real world. Whether you are a translator or just a reader, being able to stand in front of the Chicago pub where your main character is getting drunk with his drug-addled amputee friend certainly adds to the experience, and – quite simply – an enhanced reading experience will result in a better performance by the translator.

Anyone else out there using Street View to check out the locations of the story they are translating?

P.S. interestingly, I have found Google Street View much more useful in my job than the surprising but still dreadful Google Translate.

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Squillino le trombe, rullino i tamburi. È uscito in settimana Galveston, di Nic Pizzolatto (Strade Blu Mondadori). Un romanzo davvero bellissimo che ho avuto l’onore di tradurre e al quale spero di aver reso giustizia. Si tratta del primo romanzo per Pizzolatto, dopo un’ottima raccolta di racconti. In giro per la rete lo si trova descritto così:

Roy Cady, pregiudicato, lavora come “persuasore” per un mafioso di New Orleans. Il giorno in cui gli viene diagnosticata una malattia incurabile scampa a un tentativo di omicidio fuggendo insieme a una sconosciuta, giovanissima prostituta. […] Galveston di Nick Pizzolatto è una fiaba nerissima che racconta di personaggi alla deriva verso destini inesorabili tra Louisiana e Texas. Una storia di gente che a costo di sforzi terribili cerca di uscire dalla propria disperata solitudine. Pizzolatto ci porta dentro un universo ferocissimo e al contempo profondamente umano, dove l’eterna lotta tra il bene e il male trova uno scenario perfetto, in un paesaggio grandioso e squallido, fatto di paludi e raffinerie, di motel e oceano.

Pizzolatto ha un gran talento, descrive luoghi e sensazioni in maniera originale ma senza strafare, e sa scrivere dialoghi perfettamente realistici servendosi in modo impeccabile di quel Southern American English parlato nei luoghi in cui si svolge la storia. Una peculiarità che purtroppo è stato impossibile conservare nel processo di traduzione. Essendo ovviamente pura follia pensare di sostituire un accento regionale inglese con un accento regionale italiano, il massimo che si poteva fare era rendere l’idea di questo sottoproletariato disperato e poco istruito, tramite sgrammaticature e colloquialismi. Un piccolo esempio – ché non voglio annoiarvi troppo, e ne trovate a bizzeffe nel libro – è la parlata di Rocky, la protagonista femminile, che conclude molte delle sue frasi con “…man.” In inglese americano la cosa è assolutamente comune. In alcune traduzioni, specie nei vecchi film, avrete sentito questa gente dirsi “amico” in continuazione. Inutile dire che mi è sempre suonato finto, e nonostante sia sempre contrario ad addomesticare eccessivamente i testi, onestamente in italiano nessuno dice “Ehi, amico.” Che fare, allora? Beh, ogni scelta va inserita nel contesto più ampio del libro. Molto spesso quel “man” è l’equivalente del “cioè” tanto caro ai nostri giovani. Altre volte, invece, quel “man” rende meglio come “bello” o “capo”. Altre volte ancora è stato meglio ometterlo del tutto, visto che qualsiasi aggiunta avrebbe reso assai innaturale la frase italiana.

Altra sfida interessante è stata la resa delle espressioni razziste che il narratore adopera piuttosto spesso. Innanzitutto abbiamo i mafiosi di New Orleans. Gli epiteti  usati per descriverli sono molti e hanno connotazioni leggermente diverse: “wop”, “dago”, “guido” (questo l’ho sempre trovato molto interessante; sicuramente ci saranno stati più Giuseppe o Salvatore o Antonio, che non Guido, eppure è questo che si è imposto come nome generico per gli italiani) “goombah” (eh già, proprio una distorsione del “cumpà” con cui tanti meridionali si chiamavano l’un l’altro) e “greaseball”. Dopo aver fatto le ricerche del caso, ho optato, a seconda del contesto e delle sfumature di ogni singola situazione, per “guappo”, “tamarro”, “terrone”, “picciotto”, “paisà”.

Ho avuto un problema simile con altre due espressioni.  Innanzitutto “Polack”, la versione razzista di “Pole” o “Polish”, ossia una variante dispregiativa di “polacco”. In italiano, giacché storicamente non c’è stata immigrazione dalla Polonia, abbiamo soltanto polacco, che non è offensivo, e quindi, per conservare la forza e la sfumatura dispregiativa dell’originale è stato necessario dire “polacco di merda” là dove nell’originale figurava un semplice “Polack”. L’altra parola che non consente una traduzione letterale è “wetbacks”. In questo caso si parla di un insulto rivolto ai messicani clandestini, chiamati appunto “schiene bagnate” poiché molti di loro entravano illegalmente negli Stati Uniti attraversando a nuoto il Rio Grande, che segna il confine fra il Texas e il Messico. Ovviamente, in America tutti sono consci di questa connotazione della parola “wetback”, ma se in italiano leggessimo di un gruppo di “schiene bagnate” l’espressione sarebbe alquanto difficile da decifrare. Ancora una volta, per rendere l’atteggiamento razzista insito nell’espressione, Roy in un primo momento parla di “clandestini messicani”, per chiarire la loro condizione, e poche righe più sotto si riferisce a lor dicendo “quei cazzo di messicani”.

Al di là delle minuzie da addetti ai lavori, comunque, resta una storia piena di umanità, raccontata con rara sensibilità da un autore che sa come tenervi sulle spine fino all’ultima pagina. Galveston è un luogo carico di storia, un’isola ancora sbronza dai tempi in cui lungo le sue spiagge c’erano esploratori spagnoli e pirati francesi. Fiaccata dagli uragani e sospesa fra le risate del lungomare e la disperazione dei motel fatiscenti, è un luogo dove i sedimenti della storia continuano a venir fuori sotto l’erosione del mare e del vento. Lo stesso vale per la narrazione di Roy Cady, sospesa fra passato e presente, nella quale poco a poco i ricordi riaffiorano, permettendoci di mettere lentamente a posto i vari pezzi del puzzle.

Vi consiglio spassionatamente – percentuali sulle vendite, ahimè, non ne prendo – di andarvi a comprare e leggere questo sorprendente esordio.

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GalvestonI am pleased and proud to announce that last week Strade Blu Mondadori published Nic Pizzolatto‘s Galveston. A truly beautiful novel which I had the privilege to translate, and to which I hope I did justice. Early reviews have praised the book, which is Pizzolatto’s first novel after his brilliant collection of stories.

Pizzolatto … takes a hard-edged look at the stormy life of a compassionate criminal in his impressive first novel … As Pizzolatto switches smoothly between past and present, he vividly captures Galveston in all its desperate vulnerability as it faces the approach of Hurricane Ike in September 2008. (Publisher’s Weekly)

Pizzolatto is a very talented writer, he is able to describe places and feelings  in original ways without going overboard, and really knows how to write dialogue, especially when he uses Southern American English. Unfortunately, that’s a peculiarity that could not be rendered appropriately in the translation process. Since it would be pure madness to even think about replacing an English dialect with an Italian one, the best one could do was try to convey the idea of this often desperate and poorly educated underclass, through a warped grammar and many colloquialisms. An example would be the way the main female character, Rocky, ends most of her sentences with “…man.” In American English, this is absolutely normal. In some Italian translations, especially in old movies, you can hear those people using “amico” (“friend”). Needless to say, it just sounds fake, and despite being fiercely opposed to excessive domestication of texts, in Italian no one really says “Ehi, amico” to say hi to someone. What to do, then? Well, choices are to be made looking at the big picture, the whole work. That “man” became “cioè”, “bello,” or “capo” according to the context, and many times the best choice was to simply omit that bit, because the Italian sentence was already perfectly natural without it.

Another interesting challenge was the need to translate the many racial slurs that the narrator uses quite liberally. We have the mafia crowd in New Orleans. Roy Cady, the main character and narrator, calls them “wops”, “dagos”, “guidos” (by the way, I’ve always thought, there must have been more Giuseppes, or Salvatores or Antonios, for sure, why did Guido become the stereotypical Italian name?) “goombah” (gotta love this one, a distortion of the  “cumpa’” used by Southern Italians to address each other) and “greaseballs”. Obviously, most of them won’t make sense to an Italian ear, so I had to find equivalents that would elicit a similar reaction in the reader. After doing my research, I had a few options, and in different situations I went for “guappo”, “tamarro”, “terrone”, “picciotto”, “paisà”.

A similar problem arose with two other slurs. Firstly, “Polack”. In English we have the acceptable “Polish” and the slur “Polack.” In Italian, probably because of the lack of substantial immigration from Poland, we just have “polacco”, which sounds like “Polack” but is perfectly acceptable, and the only option anyway. So, in Italian, I had to go for “polacco di merda” (“fucking Pole”) whenever “Polack” was used, in order to keep the hateful nuance. The other expression that couldn’t be translated literally is “wetbacks”. Every American will know that it refers to Mexicans swimming across the Rio Grande to enter the United States illegally. Italian won’t, though. Once again, in order to preserve the racist nuance, Roy at first identifies them as “clandestini messicani” (“illegal Mexican immigrants”) and shortly after refers to them as “quei cazzo di messicani” (“those fucking Mexicans”).

But besides the minutiae aimed at fellow translators and other language-obsessed people, this is a story heavy with humanity, told with rare sensitivity by an author who knows how to keep you reading until the end. Galveston is a place laden with history, “still nursing a hangover” from the times of Spanish explorers and French pirates who moved along its beaches. Battered by hurricanes and torn between the laughter on the seaside and the desperation hidden in the motels. A place where history “keeps turning up”, because the sea and the wind never stop eroding and exposing the layers of history. Just like what happens with Roy Cady’s narration, which, switching between past and present, slowly and skillfully allows us to figure out where all the pieces of the puzzle go.

I warmly and sincerely recommend, and not out of personal interest – no royalties for me, unfortunately – that you all buy and read this surprising debut.

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