Ogni tanto i miei amici non addetti ai lavori mi chiedono del mio lavoro. O sono tutti molto educati, oppure l’idea di tradurre libri affascina parecchio. Una cosa che mi stupisce sempre è sentirmi chiedere come ci si comporta con nomi e soprannomi. Sono fortemente ed ostinatamente contrario all’addomesticazione dei testi tradotti, quindi potrete immaginare che tradurre addirittura i nomi dei personaggi di un testo mi fa accapponare la pelle.
A guardarmi indietro, è una cosa che mi urta sin da quando ero bambino. Non mi perdevo una puntata di Holly e Benji, e mi crollò il mondo addosso quando, anni dopo, mi resi conto che quei ragazzini giapponesi non si potevano certo chiamare Oliver Hutton, Mark Lenders, Benji Price e Tom Becker. E infatti erano Tsubasa Ozora, Kojiro Hiyuga, Genzo Wakabayashi, Taro Misaki. Quando guardavo il cartone animato, non sapevo ancora l’inglese, e il giapponese non lo so nemmeno ora. Però non è che i nomi originali fossero poi tanto più difficili da pronunciare rispetto a questi nomi inglesi. E in ogni caso, se proprio li si voleva cambiare, a quel punto tanto valeva usare dei nomi italiani. Ma, si sa, l’inglese fa molto fico. Più avanti, appena uscito dalle medie, divenni un avido lettore di Dragon Ball, e mi resi conto che i nomi dei personaggi nella serie TV erano stati cambiati… dal giapponese al giapponese. Eh già, a parte Son Goku e pochi altri, i nomi restavano oscuri e continuavano a suonare giapponesi, ma venivano distorti o troncati. In questo caso non si poteva nemmeno addurre la scusa della semplicità o della familiarità. Era un po’ come chiamare Topo Gigio “Top Gig”, insomma, tanto vale lasciarlo com’è, o no?
Ma passiamo alle cose serie. Nel mio lavoro di traduttore letterario mi è capitato di cambiare i nomi dei personaggi soltanto nel caso in cui si trattasse di soprannomi. In Dermaphoria di Craig Clevenger (capolavoro mai pubblicato che giace da qualche parte a Segrate – un perfetto esempio di harakiri mondadoriano) conosciamo molti dei personaggi che gravitano intorno al protagonista soltanto con i loro soprannomi. Abbiamo Jack and the Beanstalk, due tipi loschi e paranoici che ogni tanto bussano alla sua porta. Jack è piccolino, l’altro, come dice il nome, è uno spilungone allampanato. Poi c’è The Glass Stripper, una spogliarellista che si esibisce in una cabina di vetro nelle viscere di Los Angeles. E ancora Toe Tag, un bambino autistico che squarta, macella e fa sparire cadaveri per conto del suo paparino criminale. Tutti soprannomi che andavano tradotti per renderne l’efficacia. Come quasi sempre accade, però, quei soprannomi erano a dir poco difficili da tradurre, soprattutto perché, con l’eccezione di Toe Tag, erano parte di una serie di riferimenti al mondo delle favole che ritornavano lungo tutto l’arco della narrazione. Jack and the Beanstalk altro non è che il titolo della famosa favola del fagiolo magico. Ma quei due davvero non si sarebbero potuti chiamare “Giacomino e il Fagiolo Magico”. Per quanto riguarda The Glass Stripper, si tratta di un riferimento alla “glass slipper”, e cioè la “scarpetta di cristallo” di Cenerentola. In questo caso, tanto per cominciare, le regole dell’italiano imponevano l’uso di una preposizione diversa, facendo perdere sin da subito ogni possibilità evocativa – la spogliarellista in questione non è fatta “di” cristallo, poteva essere al massimo “la Spogliarellista del cristallo”. Avrei potuto infischiarmene bellamente e accettare la perdita, ma Craig Clevenger, l’autore, mi aveva detto chiaramente che avrebbe voluto mantenere i riferimenti fiabeschi, quindi bisognava trovare una soluzione soddisfacente. Ecco che Jack and the Beanstalk diventano Jack e lo Spaventapasseri (un riferimento a Il Mago di Oz, citato anche altrove nel romanzo). Per quanto riguarda la ragazza, invece, mi sono dovuto accontentare di chiamarla “la Fata dietro al vetro”, perdendo parecchio ma mantenendo perlomeno l’alone fiabesco. Tradurre “Toe Tag”, poi, nonostante l’assenza di riferimenti alle favole, si è rivelato una sfida non da poco. La traduzione letterale è “cartellino all’alluce”, un tantino strano e verboso come soprannome, no? E allora ho fatto un passo indietro. Il nome del personaggio testimonia la fine ineluttabile che tocca a chiunque abbia la sfortuna di incontrarlo. Dovevo trovare un nome che rendesse tutto questo, e non è stato facile.
Necrologio? Obitorio? No, non mi soddisfacevano. Non sembravano adatti ad essere usati come soprannomi. E poi mancava la sfumatura medica, l’odore di formalina.
Bisturi, allora? Troppo preciso, troppo pulito. Frangicoste? Troppo tecnico. Okay, lasciamo perdere il riferimento ospedaliero, concentriamoci sull’idea di una fine dolorosa.
Calvario, forse? Suona un po’ come Mario, Dario, che so… Berengario. Come nome ci starebbe anche. Troppo religioso, però, qualcuno potrebbe pensare che ne valga quasi la pena, visto il riferimento.
Gira che ti rigira, ho scelto Supplizio. Probabilmente avrei potuto trovare qualcosa di meglio, ma di certo era una descrizione accurata del personaggio e del suo ruolo nella vita delle persone.
Come abbiamo appena visto, quando si tratta di soprannomi la traduzione è non solo auspicabile, ma necessaria, se non si vuole rischiare di far perdere elementi importanti al lettore italiano che magari non mastica l’inglese. Certe volte però, sarebbe il caso che editor e revisori, a volte anche troppo zelanti a cambiare traduzioni perfettamente logiche, sviluppassero un po’ più di orecchio per quel che potrebbe suonare ridicolo. Vi devo confessare, infatti, che l’idea per questo post senza pretese mi è venuta imbattendomi in un libro nella biblioteca della Società Dante Alighieri di Brisbane, dove insegno italiano. Cercavo dei titoli per bambini, da prendere in prestito e leggere a mia figlia. Quand’ecco che vedo questo: Melanie Miraculi – Strega in azione. So bene che si tratta del nome della streghetta nell’originale inglese, nel quale, giocando sull’aggettivo miraculous, l’accento va messo sulla “a”, però – e non credo di essere un sessuomane – nel leggere il titolo ho subito pensato a un’accanita guardona con la passione del didietro. Insomma, stona, e pure parecchio. Una semplice scelta di buon senso – trasformare la “u” in “o” – avrebbe reso il titolo meno soggetto a battute sinceramente scontante ma comunque da mettere in conto.
Ancora una volta, è dura trovare una regola e seguirla. Si naviga a vista, si improvvisa, ci si adatta, si reinventa, tutte cose difficili quando a guidarci devono essere concetti vaghi ed arbitrari come “orecchio” e “buon senso”. Ma forse è proprio questa la bellezza del nostro lavoro.
Argomento davvero affascinante, con tante sfaccettature e strategie di traduzione diverse.
Aggiungo due link, il primo a una discussione con spunti interessanti su Intralingo, A name is a name. Right?, su un nome che ha connotazioni simboliche che rischiano di essere perse nella traduzione. Il secondo invece è nel mio blog, sulla variazione di una o più lettere in alcuni nomi “italiani” che rimangono comunque simili all’originale: Il tenente Colombo, Dart Fener e l’orso Yoghi.
Grazie della visita Licia, e grazie dei link. Ottimi gli esempi che porti nel tuo blog. Ci sarebbe da farne una collezione, effettivamente. La cosa interessante – e, devo dire, confortante – è notare come con il tempo adattatori e traduttori si stiano allontanando sempre di più dalla tradizione della traduzione addomesticante, come nel caso dei droidi di Guerre Stellari.
Molto bello anche il post su Intralingo, e la discussione che ne è nata. In quel caso è davvero un dilemma, viste le profonde e precise connotazioni simboliche di quei nomi… Come ho detto anche nel post, sono queste sfide che ti rendono fiero di tradurre letteratura nonostante il lavoro sia quasi sempre mal pagato.
Salve, Giuseppe 🙂
Questo topic capita proprio “a fagiolo” (come tradurre ad es. questa espressione? Non alla lettera, naturalmente). Dopo il sollecito, mi è giunto finalmente Everything matters e lo sto leggendo in inglese, andando a rivedere la tua traduzione, qua e là.
A proposito di come rendere i soprannomi, nel capitolo in cui il padre accompagna Rodney dal manager dei Cubs, a un certo punto costui lo chiama “Sasquatch”, che a me, sinceramente, non diceva nulla, mentre la tua trasposizione in “Bigfoot”, pur essendo sempre in inglese, è chiara anche per noi Italiani.
Certo, come dici anche tu, spesso occorrono sforzi più creativi, mentre altre volte basterebbe poco per ovviare a obbrobri come quello della Melanie, strega in azione.
Un altro punto che mi aveva incuriosito lì per lì era l’uso del nome Quasimodo, a proposito del protagonista che in una fase di misantropia sta chiuso in casa, spiando le persone da dietro le tende. Non mi risultava che il nostro Quasimodo (il poeta, intendo) avesse questa idiosincrasia, anche se i poeti spesso ne hanno 😀 ed ero curiosa di vedere quale poeta inglese fosse citato nel testo originale. Poi mi sono ricordata del Quasimodo di Notre Dame de Paris e ho pensato che il paragone probabilmente fosse con quello, come confermato ora dalla versione in inglese che conserva lo stesso nome.
Oppure ho preso una doppia cantonata e l’autore si riferiva ad un terzo Quasimodo? 😀
In ogni caso, mi sta piacendo fare questo confronto. E’ stata proprio una bella idea. Contemporaneamente, sto leggendo Galveston, però non è della stessa levatura di Everything matters, sbaglio? Sia per lo stile che per il contenuto, anche se si fa leggere volentieri.
Complimenti sempre per il tuo lavoro.
Saluti. Rose
Ciao Rose, bentornata.
Con “cadere a fagiolo” mi hai fatto tornare in mente quando all’università le traduzioni “parola per parola” erano il filone umoristico più gettonato.
Rispondendo alla tua domanda, Quasimodo è ovviamente proprio il famoso gobbo della cattedrale. 😉
Sono contento e anche un po’ intimidito dell’attenzione che stai dedicando alla traduzione, ma naturalmente non può che farmi piacere. Se tutti i lettori fossero come te… 😉
Riguardo Galveston ti rispondo all’altro commento…
Io credo che i veri lettori apprezzano il lavoro dei traduttori, se non altro perché se non ci fossero i traduttori, ci sarebbero libri a cui non avrebbero mai accesso, non conoscendo per niente la lingua in cui sono stati scritti. Pensate a quante lingue diverse si dovrebbero conoscere per leggere in originale tutti i libri che si trovano in libreria (inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, russo, svedese, turco, giapponese, ecc.).
Quanto all’attenzione che Rose dedica alla traduzione, credo che sia possibile solo a chi sa molto bene una lingua straniera e non è sempre il caso. Personalmente, io evito di fare – a meno che non mi sia chiesto di farlo per motivi professionali – confronti tra la versione originale di un testo e la traduzione, o meglio un libro o lo leggo in originale o lo leggo in traduzione, non leggo la versione originale con la traduzione sotto mano (o il contrario) perché mi ritroverei a valutare la traduzione e perderei per strada la storia/il senso del libro.
Mi correggo. Galveston è un bel libro. Ogni tanto mi pesa il senso di squallore generale, ma immagino fosse nell’intenzione dell’autore dipingere esattamente quella realtà. R
Esatto. Secondo me, a dire il vero, Pizzolatto ha uno stile più raffinato rispetto a Currie, perché Currie con quelle voci spesso molto sarcastiche si cava d’impiccio, mentre Pizzolatto mantiene quella serietà da noir e quell’intensità da profondo sud che può facilmente diventare insopportabile, e invece – perlomeno nell’originale – se la cava alla grandissima. Detto questo, Everything Matters! è talmente coraggioso per contenuti e narrazione che probabilmente risulta di maggiore impatto.
La resa secondo me straordinaria di quello squallore generale è uno dei punti di forza del libro. Immagino si debba essere dell’umore giusto, ma – non so che a punto tu sia arrivata – sono sicuro che noterai che quello squallore fa da cornice ad un’umanità intensissima e davvero toccante.
Buona lettura, grazie ancora dell’attenzione, e a presto!
GMB
Salve, Giuseppe. Sono d’accordo con te, anche se con tutta la sua umanità, il protagonista è un individuo che risolve i problemi, ammazzando le gente, vero? Ma ci sono anche gli altri personaggi, naturalmente, e l’atmosfera…
Ora però volevo chiederti un’altra cosa: dal tuo portfolio mi ha incuriosito Sara Gaartman e vorrei anche La dissolvenza, ma non li trovo nei book shops. Idem nelle biblioteche del sistema bibliotecario della mia zona. Non sono in commercio? Grazie. 😀
Ciao Rose,
Beh, sì, Roy Cady è un assassino, ma una volta finito il libro ci si rende di un suo percorso che lo porta, in vari modi, ad espiare le sue colpe. E poi, come dici tu, c’è Rocky, c’è tutto un mondo di gente intrappolata nell’abbruttimento totale. Comunque quando parlavo di umanità intensissima la intendevo in senso lato, come poteva intenderla un De André nel parlare di ladri, assassini, puttane e compagnia. Un’umanità così dolente e disperata che ti colpisce assai più intensamente di quella di chi sta bene. Senza contare che l’umanità, nel senso di insieme delle peculiarità degli uomini, non è solo belle cose. Ma divago…
Per quanto riguarda il libro su Sara Baartman, per ora non è ancora uscito. Ho rinunciato da tempo a capire le logiche delle case editrici.
La Dissolvenza invece è solo un racconto breve, e lo trovi qui.
A presto!
Ho letto il racconto sull’altro post, Giuseppe, e ho scritto due righe là.
Per il resto, che ti devo dire… tra l’umanità dolente della letteratura, le cattive notizie dei telegiornali (spesso i cronisti sembrano provare piacere nel descrivere i dettagli più raccapriccianti) e i problemi quotidiani, uno si sente un po’ sopraffatto da tanta negatività.
Sì, sì, il pathos, l’arte, il male di vivere…
Sarò egoista, ma negli ultimi tempi mi sono convertita a una sorta di epicureismo. O_O
Ciao! approdata in questo blog in quanto amante dell’australia e futura insegnante di italiano li!
Sapere che dermaphoria è ancora nel limbo dei libri non pubblicati mi intristisce assai….grazie per avermi dato qualche assaggio nell’attesa! E per aver postato l’altro suo racconto!
Ciao, Stefano.
Non sai quanto intristisce me. Quasi quattro mesi di lavoro, e soprattutto un libro strepitoso, poi ti arrivano dei ragionieri e lo chiudono in un cassetto, dando invece la luce verde a biografie di calciatori e libri di comici di terz’ordine… Ci vorrebbe una lobby di lettori che tempestasse di lamentele le case editrici… Purtroppo il pubblico in senso lato ha le sue colpe, ma per i palati un minimo più fini è avvilente. In qualsiasi caso, grazie a te per l’attenzione. A presto!
GMB
Purtroppo, devo dire che è sconfortante per me entrare in libreria: tutte le volte rimango stupefatta dalla quantità di libri sulle e delle celebrità di turno o libri fatti con lo stampino (quanti storie che girano intorno ai vampiri sono usciti dopo il successo di Twilight?) vengono pubblicati.
Poi è ovvio che sono consapevole che le case editrici non sono enti benefici, bensì aziende che devono fare degli utili, quindi ci sta che pubblichino cose solo perché sanno che venderanno bene e gli faranno guadagnare dei soldi, ma sarebbe bello che trovassero il coraggio di pubblicare, a fianco dei bestsellers o potenziali bestsellers, anche libri per palati più fini.
Ce n’è voluta ma Dermaphoria è nelle edicole, il mondo è un posto culturalmente più bello!
librerie intendevo ovviamente! 😛