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Posts Tagged ‘Southern American English’

Squillino le trombe, rullino i tamburi. È uscito in settimana Galveston, di Nic Pizzolatto (Strade Blu Mondadori). Un romanzo davvero bellissimo che ho avuto l’onore di tradurre e al quale spero di aver reso giustizia. Si tratta del primo romanzo per Pizzolatto, dopo un’ottima raccolta di racconti. In giro per la rete lo si trova descritto così:

Roy Cady, pregiudicato, lavora come “persuasore” per un mafioso di New Orleans. Il giorno in cui gli viene diagnosticata una malattia incurabile scampa a un tentativo di omicidio fuggendo insieme a una sconosciuta, giovanissima prostituta. […] Galveston di Nick Pizzolatto è una fiaba nerissima che racconta di personaggi alla deriva verso destini inesorabili tra Louisiana e Texas. Una storia di gente che a costo di sforzi terribili cerca di uscire dalla propria disperata solitudine. Pizzolatto ci porta dentro un universo ferocissimo e al contempo profondamente umano, dove l’eterna lotta tra il bene e il male trova uno scenario perfetto, in un paesaggio grandioso e squallido, fatto di paludi e raffinerie, di motel e oceano.

Pizzolatto ha un gran talento, descrive luoghi e sensazioni in maniera originale ma senza strafare, e sa scrivere dialoghi perfettamente realistici servendosi in modo impeccabile di quel Southern American English parlato nei luoghi in cui si svolge la storia. Una peculiarità che purtroppo è stato impossibile conservare nel processo di traduzione. Essendo ovviamente pura follia pensare di sostituire un accento regionale inglese con un accento regionale italiano, il massimo che si poteva fare era rendere l’idea di questo sottoproletariato disperato e poco istruito, tramite sgrammaticature e colloquialismi. Un piccolo esempio – ché non voglio annoiarvi troppo, e ne trovate a bizzeffe nel libro – è la parlata di Rocky, la protagonista femminile, che conclude molte delle sue frasi con “…man.” In inglese americano la cosa è assolutamente comune. In alcune traduzioni, specie nei vecchi film, avrete sentito questa gente dirsi “amico” in continuazione. Inutile dire che mi è sempre suonato finto, e nonostante sia sempre contrario ad addomesticare eccessivamente i testi, onestamente in italiano nessuno dice “Ehi, amico.” Che fare, allora? Beh, ogni scelta va inserita nel contesto più ampio del libro. Molto spesso quel “man” è l’equivalente del “cioè” tanto caro ai nostri giovani. Altre volte, invece, quel “man” rende meglio come “bello” o “capo”. Altre volte ancora è stato meglio ometterlo del tutto, visto che qualsiasi aggiunta avrebbe reso assai innaturale la frase italiana.

Altra sfida interessante è stata la resa delle espressioni razziste che il narratore adopera piuttosto spesso. Innanzitutto abbiamo i mafiosi di New Orleans. Gli epiteti  usati per descriverli sono molti e hanno connotazioni leggermente diverse: “wop”, “dago”, “guido” (questo l’ho sempre trovato molto interessante; sicuramente ci saranno stati più Giuseppe o Salvatore o Antonio, che non Guido, eppure è questo che si è imposto come nome generico per gli italiani) “goombah” (eh già, proprio una distorsione del “cumpà” con cui tanti meridionali si chiamavano l’un l’altro) e “greaseball”. Dopo aver fatto le ricerche del caso, ho optato, a seconda del contesto e delle sfumature di ogni singola situazione, per “guappo”, “tamarro”, “terrone”, “picciotto”, “paisà”.

Ho avuto un problema simile con altre due espressioni.  Innanzitutto “Polack”, la versione razzista di “Pole” o “Polish”, ossia una variante dispregiativa di “polacco”. In italiano, giacché storicamente non c’è stata immigrazione dalla Polonia, abbiamo soltanto polacco, che non è offensivo, e quindi, per conservare la forza e la sfumatura dispregiativa dell’originale è stato necessario dire “polacco di merda” là dove nell’originale figurava un semplice “Polack”. L’altra parola che non consente una traduzione letterale è “wetbacks”. In questo caso si parla di un insulto rivolto ai messicani clandestini, chiamati appunto “schiene bagnate” poiché molti di loro entravano illegalmente negli Stati Uniti attraversando a nuoto il Rio Grande, che segna il confine fra il Texas e il Messico. Ovviamente, in America tutti sono consci di questa connotazione della parola “wetback”, ma se in italiano leggessimo di un gruppo di “schiene bagnate” l’espressione sarebbe alquanto difficile da decifrare. Ancora una volta, per rendere l’atteggiamento razzista insito nell’espressione, Roy in un primo momento parla di “clandestini messicani”, per chiarire la loro condizione, e poche righe più sotto si riferisce a lor dicendo “quei cazzo di messicani”.

Al di là delle minuzie da addetti ai lavori, comunque, resta una storia piena di umanità, raccontata con rara sensibilità da un autore che sa come tenervi sulle spine fino all’ultima pagina. Galveston è un luogo carico di storia, un’isola ancora sbronza dai tempi in cui lungo le sue spiagge c’erano esploratori spagnoli e pirati francesi. Fiaccata dagli uragani e sospesa fra le risate del lungomare e la disperazione dei motel fatiscenti, è un luogo dove i sedimenti della storia continuano a venir fuori sotto l’erosione del mare e del vento. Lo stesso vale per la narrazione di Roy Cady, sospesa fra passato e presente, nella quale poco a poco i ricordi riaffiorano, permettendoci di mettere lentamente a posto i vari pezzi del puzzle.

Vi consiglio spassionatamente – percentuali sulle vendite, ahimè, non ne prendo – di andarvi a comprare e leggere questo sorprendente esordio.

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GalvestonI am pleased and proud to announce that last week Strade Blu Mondadori published Nic Pizzolatto‘s Galveston. A truly beautiful novel which I had the privilege to translate, and to which I hope I did justice. Early reviews have praised the book, which is Pizzolatto’s first novel after his brilliant collection of stories.

Pizzolatto … takes a hard-edged look at the stormy life of a compassionate criminal in his impressive first novel … As Pizzolatto switches smoothly between past and present, he vividly captures Galveston in all its desperate vulnerability as it faces the approach of Hurricane Ike in September 2008. (Publisher’s Weekly)

Pizzolatto is a very talented writer, he is able to describe places and feelings  in original ways without going overboard, and really knows how to write dialogue, especially when he uses Southern American English. Unfortunately, that’s a peculiarity that could not be rendered appropriately in the translation process. Since it would be pure madness to even think about replacing an English dialect with an Italian one, the best one could do was try to convey the idea of this often desperate and poorly educated underclass, through a warped grammar and many colloquialisms. An example would be the way the main female character, Rocky, ends most of her sentences with “…man.” In American English, this is absolutely normal. In some Italian translations, especially in old movies, you can hear those people using “amico” (“friend”). Needless to say, it just sounds fake, and despite being fiercely opposed to excessive domestication of texts, in Italian no one really says “Ehi, amico” to say hi to someone. What to do, then? Well, choices are to be made looking at the big picture, the whole work. That “man” became “cioè”, “bello,” or “capo” according to the context, and many times the best choice was to simply omit that bit, because the Italian sentence was already perfectly natural without it.

Another interesting challenge was the need to translate the many racial slurs that the narrator uses quite liberally. We have the mafia crowd in New Orleans. Roy Cady, the main character and narrator, calls them “wops”, “dagos”, “guidos” (by the way, I’ve always thought, there must have been more Giuseppes, or Salvatores or Antonios, for sure, why did Guido become the stereotypical Italian name?) “goombah” (gotta love this one, a distortion of the  “cumpa’” used by Southern Italians to address each other) and “greaseballs”. Obviously, most of them won’t make sense to an Italian ear, so I had to find equivalents that would elicit a similar reaction in the reader. After doing my research, I had a few options, and in different situations I went for “guappo”, “tamarro”, “terrone”, “picciotto”, “paisà”.

A similar problem arose with two other slurs. Firstly, “Polack”. In English we have the acceptable “Polish” and the slur “Polack.” In Italian, probably because of the lack of substantial immigration from Poland, we just have “polacco”, which sounds like “Polack” but is perfectly acceptable, and the only option anyway. So, in Italian, I had to go for “polacco di merda” (“fucking Pole”) whenever “Polack” was used, in order to keep the hateful nuance. The other expression that couldn’t be translated literally is “wetbacks”. Every American will know that it refers to Mexicans swimming across the Rio Grande to enter the United States illegally. Italian won’t, though. Once again, in order to preserve the racist nuance, Roy at first identifies them as “clandestini messicani” (“illegal Mexican immigrants”) and shortly after refers to them as “quei cazzo di messicani” (“those fucking Mexicans”).

But besides the minutiae aimed at fellow translators and other language-obsessed people, this is a story heavy with humanity, told with rare sensitivity by an author who knows how to keep you reading until the end. Galveston is a place laden with history, “still nursing a hangover” from the times of Spanish explorers and French pirates who moved along its beaches. Battered by hurricanes and torn between the laughter on the seaside and the desperation hidden in the motels. A place where history “keeps turning up”, because the sea and the wind never stop eroding and exposing the layers of history. Just like what happens with Roy Cady’s narration, which, switching between past and present, slowly and skillfully allows us to figure out where all the pieces of the puzzle go.

I warmly and sincerely recommend, and not out of personal interest – no royalties for me, unfortunately – that you all buy and read this surprising debut.

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