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Posts Tagged ‘Grande Muraglia’

Nel numero di maggio/giugno di Foreign Policy, Edith Grossman analizza le “inspiegabili reticenze” a pubblicare opere tradotte che caratterizzano le grandi case editrici dei paesi anglofoni, nonostante il successo commerciale ottenuto da molti autori tradotti. Riporto e traduco al volo un paio di passaggi:

Le statistiche sono sconvolgenti, per l’era della cosiddetta globalizzazione: negli Stati Uniti e nel Regno Unito, le traduzioni costituiscono soltanto il 2-3 per cento dei libri pubblicati ogni anno, mentre in America Latina e in Europa Occidentale la percentuale sfiora il 35 per cento. Horace Engdahl, all’epoca segretario dell’Accademia Svedese, nel 2008 rimproverò gli Stati Uniti per il loro provincialismo letterario: “Gli americani sono troppo isolati, troppo insulari. Non traducono abbastanza e non prendono realmente parte al grande dialogo della letteratura.

Ed è vero che l’influenza culturale della letteratura americana nell’ultimo secolo fa pensare ad un “monologo”, un’operazione a senso unico che, sebbene venga spesso vista come “culturalmente imperialista”, non è necessariamente vantaggiosa per il mondo anglofono, al di là delle somme relativamente modeste ricavate dalla vendita dei diritti all’estero. Non è vantaggiosa perché, mentre il resto del mondo riesce a bilanciare la letteratura tradotta e la propria, espandendo così i propri orizzonti culturali – chiunque può capire come e perché il Texas e New York siano due mondi separati, o quanto siano diversi l’inglese medio e l’americano medio – il mondo anglosassone spesso si ritrova incapace di comprendere le altre culture, e in modo particolare le diverse sfumature all’interno di esse.

Il problema ovviamente, è l’approccio generale di tutta una cultura, e questo particolare problema ha avuto conseguenze anche catastrofiche – pensiamo all’approccio culturalmente ottuso dell’amministrazione Bush sul piano internazionale, per fare un esempio ovvio. Le conseguenze più estreme vengono brillantemente riassunte da Emily Apter in uno dei saggi pubblicati in The Translation Zone, nel quale l’autrice fa notare come, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, l’esercito americano

“contasse sull’aiuto dei traduttori automatici per qualsiasi cosa, dall’interrogare i prigionieri al localizzare depositi di armi chimiche.”

e sottolineando che

“La posta in gioco, nel caso di una traduzione errata, è altissima, giacché in un teatro di guerra l’errore di una di queste macchine può facilmente portare alla morte sotto il “fuoco amico” o all’individuazione di un bersaglio errato.”

Apter cita un passaggio particolarmente interessante tratto da Asia Times (11/11/2003) :
“In termini di competenze linguistiche e culturali gli Stati Uniti posseggono ad oggi quel che potrebbe essere il più scadente servizio clandestino che una grande potenza abbia mai avuto nel corso della storia.”
E anche Grossman, ovviamente, non manca di considerare il quadro d’insieme, andando ben oltre i semplici rimproveri ad un pubblico culturalmente pigro, e dicendo che:

Potrebbe anche essere che nel migliore dei mondi possibili – quello antecedente alla costruzione della Torre di Babele – tutti gli esseri umani fossero in grado di comunicare fra loro e che il ruolo dei traduttori fosse letteralmente impensabile. Ma viviamo in un mondo il cui bagaglio linguistico, già in calo, conta all’incirca seimila idiomi, un mondo in cui l’isolazionismo e il nazionalismo sfrenato sono in aumento, e ci sono paesi che stanno iniziando a costruire muri non soltanto metaforici intorno a sè stessi. Non credo di esagerare il problema quando dico che la traduzione può essere, per i lettori come per gli scrittori, uno delle soluzioni per andare oltre un minaccioso brusio di lingue incomprensibili e di frontiere chiuse, per raggiungere la comprensione reciproca. Non si tratta di una possibilità che possiamo ignorare senza conseguenze.

Difficile commentare o aggiungere qualcosa ad un’analisi tanto lucida, per cui vi suggerisco di leggere l’intero articolo qui.

Foto: Rob Purdie

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