Un paio d’anni fa ho avuto la fortuna di tradurre The Pilo Family Circus, il romanzo d’esordio di Will Elliott, promettente autore australiano che risiede qui a Brisbane a una manciata di chilometri da me. In Italia il libro è uscito per Strade Blu con il titolo La città dei clown, e –
Aspetta, direte, voi. Ma che c’entra la città dei clown?
Beh, in effetti nulla. Come vedete, il problema della distorsione dei titoli spunta anche in letteratura, non solo al cinema. Qui però ci sono delle buone ragioni. Il romanzo è imperniato sul circo in questione, gestito dalla famiglia Pilo, e più precisamente dai fratelli Kurt e George Pilo. Come dire “Circo Togni”. Soltanto che c’è un problema, visto che un letterale Il circo della famiglia Pilo non avrebbe funzionato, suona artefatto, nessun circo da noi ha un nome tanto lungo. La parola “Pilo”, poi, in certe zone d’Italia, suscita strane connessioni, e ormai, dopo l’impagabile Cetto Laqualunque di Albanese, il problema è nazionale. Immaginate poi, sulla scia dei suddetti Togni, o Orfei, un laconico Circo Pilo. Avrebbe suggerito qualcosa di molto diverso da questo racconto di orrore, pagliacci, acrobati e sdoppiamenti di personalità. Avrebbe fatto pensare alla storia di un uomo solo alle prese con un’estenuante e totalizzante ricerca. Al di là delle facili ironie, ho ancora delle personalissime riserve sul titolo – scelta che non spetta al traduttore – visto che di città non c’è traccia. Il libro comunque è piaciuto.
Ma, come al solito, divago. Quello che vorrei affrontare in questo post è un piccolo caso di studio. Mi sono divertito un mondo a tradurre il peculiare eloquio di uno dei protagonisti, il clown Doopy, che si esprime con uno strano, sgrammaticato ed esilarante linguaggio. Inutile dire che un simile personaggio è per l’autore un’eccellente scusa per dar sfogo alla passione per i giochi di parole. E i giochi di parole, si sa, sono una delle cose meno traducibili di qualsiasi lingua. Ho raccolto alcune delle frasi più interessanti del clown Doopy, ottimi esempi delle sfide quotidiane dei traduttori letterari. In tutti questi casi, le peculiarità dell’eloquio di Doopy erano letteralmente intraducibili, quindi si tratta di un’occasione per vedere all’opera quell’equivalenza dinamica di cui parlavo qualche post addietro, ossia, il bisogno di produrre nel lettore della traduzione un’impressione la più simile possibile a quella che l’originale suscitava nel suo pubblico. Ad esempio:
“Who done it, Gonko?” said Doopy. “Who done it? They shouldn’ta oughtn’ta done it, Gonko!”
Al di là delle singole parti, il punto centrale qui era l’eccessiva abbondanza di verbi coniugati erroneamente (who done it anziché who did it, they shouldn’ta oughtn’ta done it invece di they shouldn’t have done it). Dopo qualche tentativo, ho optato per:
“Chi è stato a l’ha fatto, Gonko?” chiese Doopy. “Chi è stato a l’ha fatto? Non avrebbero dovuto dover averlo fatto, Gonko!”
La ridondanza verbale di Doopy raggiunge l’apice in quest’altra frase, pronunciata in un momento di grande concitazione:
“They done it again, they gone and done did it, they did doggone done do’d it!”
Che, dopo diverse revisioni, è diventata
“L’hanno rifatto di nuovo, han preso e l’han far fatto, l’han proprio fatto farlo fanno preso far fatto!”
Come si può facilmente vedere, è stato necessario riformulare completamente queste frasi, immaginarsi un Doopy madrelingua italiano. Quali strafalcioni avrebbe partorito un cervello simile se avesse pensato in italiano? È una bella responsabilità, ma anche un gran bel divertimento. Altre volte Doopy storpia in maniera goffa le frasi idiomatiche, come nel caso seguente:
“He pooped the question, Gonko.”
“Popped?”
“Yeah, that’s what he done. Goshy done went and pooped the question.”
In questo caso, ‘pop the question’ (colloquialismo che significa ‘fare una proposta di matrimonio’) diventa ‘poop the question’, dove ‘poop’ significa ‘fare la cacca’. Qui si trattava di trovare un elemento nella traduzione italiana che si prestasse ad una distorsione altrettanto infelice. Per fortuna non ho dovuto cercare molto, e ho optato per:
“Gli ha fatto una prostata di matrimonio, Gonko.”
“Le ha fatto una proposta di matrimonio?”
“Si, ecco, quello ha fatto. Goshy ha preso, andato e gli ha fatto una prostata di matrimonio.”
Infine, il buffo linguaggio di Doopy mi ha regalato uno dei casi più gustosi di found in translation che mi siano capitati nella mia breve carriera. A un certo punto i clown stanno per sfogare la loro rabbia su uno degli acrobati del circo, e c’è il seguente scambio fra il capo clown Gonko e il nostro Doopy:
“[…] What’s the opposite of a facelift?”
“Squash smash face,” Doopy said.
Qui ovviamente era essenziale mantenere la consonanza fra ‘squash’ e ‘smash’. E, in pochi secondi, non soltanto avevo ottenuto il risultato sperato, ma la frase suonava addirittura meglio dell’originale, grazie ad una fortunata combinazione di lemmi italiani:
“[…]qual è il contrario di un lifting?”
“Uno spiaccica schiaccia faccia,” disse Doopy.
L’onomatopea della consonanza in questione lascia immaginare quel che potrebbe capitare alla faccia dell’acrobata in questione, non è vero?
In conclusione, Doopy mi ha regalato un’occasione speciale per esplorare il lato creativo, o meglio ri-creativo della traduzione. Spero che questo piccolo caso di studio senza pretese possa fare un po’ di luce sui dettagli pratici del nostro lavoro, e faccia sì che i lettori possano apprezzare un po’ di più il contributo ‘invisibile’ del traduttore.
Se siete curiosi di scoprire il mondo di Doopy, Gonko, del clown psicopatico JJ e degli altri sinistri personaggi di questo folle circo, andatevi a cercare La città dei clown, Strade Blu Mondadori. Oppure, se sapete l’inglese, cercate l’originale, The Pilo Family Circus. E continuate a leggere questo blog.