Sono appena tornato dalla conferenza organizzata dall’Australasian Association for Literature alla Monash University di Caulfield, Melbourne, e ho pensato che a qualcuno potrebbe interessare una rapida cronaca. Quest’anno il tema era Letteratura e traduzione, e ho deciso di presentare una proposta, per vedere se la mia avventura lievemente accademica al simposio di Sydney fosse soltanto una casualità. Sorprendentemente (giacché sono un umile traduttore, e non un ricercatore universitario), hanno accettato la mia proposta e ho finito col presentare un articolo intitolato Translation as Re-creation, che probabilmente pubblicherò sul blog nelle prossime settimane.
L’organizzazione era impeccabile, gli organizzatori gentilissimi, e c’era un vero e proprio sciame di idee interessanti che ronzavano per l’edificio H del campus di Caulfield. Prima di tutto abbiamo avuto l’onore di ascoltare la fantastica introduzione del relatore principale, David Damrosch, autore di What is World Literature?, stella della letteratura comparata e peso massimo nel suo campo di studi. Il suo atteggiamento modesto è davvero una boccata d’aria fresca, considerato che ha studiato a Yale ed è titolare della cattedra di Letteratura Comparata ad Harvard. Damrosch è in grado di spiegare la complessità della letteratura mondiale con sorprendente vivacità, comunicando brillantemente la propria passione e il proprio amore per la letteratura. Ti parla di Gilgamesh, aggiunge qualche riferimento a qualche tavoletta azteca, e poi mette su un giocoso ma impeccabile accento russo leggendo le battute del fittizio scrittore russo Vladimir Brusiloff’s nel racconto breve “The Clicking of Cuthbert”, di P. G. Wodehouse. Lasciatemelo dire, è ben difficile parlare dopo di lui.
Sfortunatamente per il resto della conferenza c’erano sempre cinque o sei sessioni contemporaneamente, quindi ho dovuto perdermi tutta una serie di relazioni che promettevano molto bene.
La prima sessione a cui ho assistito era intitolata Il processo traduttivo. Ho apprezzato molto le riflessioni di Marc Orlando sulla sua traduzione in francese di Mau Moko, un libro scritto in inglese e maori sull’arte dei tatuaggi facciali nella storia polinesiana, caratterizzato da un attivismo politico che si è dimostrato una bella sfida per il traduttore (eh già, anche gli intenti vanno tradotti). Il suo uso della musica (quattro diversi arrangiamenti de La valse d’Amelie) per dimostrare come la stessa opera si può arrangiare diversamente a seconda delle intenzioni, del contesto e del pubblico riecheggia poi uno degli argomenti che ho proposto nella mia relazione e cioè “se chi esegue una cover, o la reinterpretazione di un pezzo di musica classica è considerato un musicista, perché mai il traduttore non dovrebbe essere considerato uno scrittore?” Ho inoltre apprezzato molto il suo approccio pragmatico e moderno al problema della stranierizzazione (ossia “lasciare in pace l’autore, portare il lettore verso l’autore”) e dell’addomesticamento (“lasciare in pace il lettore, portare l’autore verso il lettore”) che lio porta ad identificare uno spazio del traduttore, una terra di nessuno a metà fra i due poli, dove autore e lettore dovrebbero incontrarsi. Di nuovo, avevo proposto un’idea simile nella mia relazione al simposio di Sydney, mettendo in guardia rispetto all’eccessiva adesione ai poli teorici. Dopo di lui, il pirotecnico Royall Tyler ci ha regalato un’illuminante analisi della traduzione dei grandi poemi epici medievali giapponesi, con tanto di rivisitazione pop di un’opera musicale e poetica della tradizione giapponese.
Nella sessione intitolata Censura e ideologia, Belinda Calderone ha analizzato il modo in cui le traduzioni delle fiabe italiane e francesi del 16° e 17° secolo realizzate nell’Inghilterra vittoriana finivano spesso per censurare e disinfettare il testo al punto di renderlo incoerente, eliminando temi come violenza, stupro e omicidio nel tentativo di trasformare in storie per bambini quelle che erano essenzialmente leggende popolari. Feng Cui, per quanto assente, ha inviato un interessante contributo sul ruolo delle traduzioni “di stato” nel dar forma al dibattito letterario nella Cina comunista, sempre al servizio di un’agenda politica in costante aggiornamento fra la fine degli anni ’40 e la rivoluzione culturale.
In Tradurre stili e voci, Leah Gerber ha affrontato il complesso problema dell’invecchiamento delle traduzioni, con un dettagliato studio delle varie traduzioni inglesi di Emil und die Detektive di Erich Kästner, aprendo interessanti spazi di dibattito. Perché una traduzione invecchia? Ha senso ritradurre un’opera degli anni ’20 per farla suonare più contemporanea e assicurarsi che venga ancora letta? E l’originale, è anch’esso invecchiato come la traduzione? In caso di risposta negativa, è possibile trovare strategie di traduzione che possano permettere ad un testo di superare la prova del tempo senza che Emil parli come un ragazzino di oggi? Dopo di lei, Suzie Gibson ha presentato un’interessante lettura dei molti adattamenti di The Turn of the Screw, seguita dall’ottima relazione di Andrew Read che ha analizzato le traduzioni francesi e tedesche di Northern Lights di Pullman, così come l’adattamento teatrale e quello cinematografico, nel tentativo di individuare le conseguenze delle scelte del traduttore. Nell’originale la protagonista, Lyra, parla un socioletto squisitamente working class che viene reso con molta efficacia tramite l’uso non ortodosso di ortografia e grammatica. Tutte le traduzioni (e, in una certa misura, l’adattamento cinematografico) appiattivano invece il suo linguaggio, facendola parlare in modo molto più corretto, e cambiando di conseguenza non soltanto la percezione del personaggio, ma influenzando addirittura la percezione dei rapporti fra diversi personaggi. Anche qui, si tratta di un argomento che ho affrontato altrove, ed è difficile esagerare l’importanza di questa pratica per il successo di una traduzione.
Il martedì si è aperto con Fertilizzazione incrociata e trasmissione, molto promettente, e piuttosto interessante. Emily Finley si è concentrata sulla traduzione del termine hegeliano Aufheben (una parola che implica al tempo stesso distruzione e conservazione). Come tradurla: suppress? Abolish? Remove? Il bizzarro sublate? O forse, come suggerito da qualcuno, to take care of? Chris Danta ha offerto idee molto originali ma parecchio lontane dai problemi della traduzione. Quando ha usato la parola traduzione le ha attribuito un significato molto diverso da quello comunemente accettato. Sono sicuro che qualunque studente in ambito letterario l’avrebbe trovato estremamente ben scritto, e non ho certo mancato di notarne l’originalità. Il problema è che era tutto molto distante dal mio campo. La terza presentazione, di Slobodanka Vladiv-Glover, ha analizzato il modello di parodia di Bakhtin come mezzo di trasmissione e traduzione di forme culturali, sottolineando come la traduzione possa condurre al sorgere di nuovi generi letterari in spazi nazionali nei quali erano in precedenza assenti.
Poi, con la tensione che cominciava a salire in vista del mio turno, si è fatta l’ora di Creazione e creatività (I). Curiosamente, visto che sarei apparso in Creazione e creatività (II) subito dopo pranzo, sono rimasto piuttosto deluso da due delle presentazioni. La sessione in realtà era cominciata bene, con Joel Scott e i suoi convincenti argomenti riguardo la “differenza” nella scrittura e nella traduzione. Joel ha proposto idee molto interessanti sul ruolo della differenza, compresa quella linguistica, in letteratura. Mi sarebbe piaciuto sentire di più riguardo le possibili strategie di traduzione della scrittura bilingue di Susana Chàvez Silverman e meno riguardo le implicazioni socio-politiche e post-coloniali dell’idea di differenza, ma tutto sommato la sua presentazione è stata molto coinvolgente e mi sono trovato ad annuire in risposta a diverse delle affermazioni di Joel. Dopo di lui ha parlato Luke Johnson, che si è concentrato sul processo di riconoscimento dell’autore nel proprio lavoro e nelle traduzioni del proprio lavoro, tramite uno stimolante parallelo psicologico con il bebè che impara a riconoscersi nello specchio. Si è trattato però, di una ventina di minuti quasi puramente teorici, senza un vero interesse verso il processo traduttivo. Ho quasi smesso di ascoltare, poi, quando Luke ha paragonato il traduttore a colui che scatta una fotografia. Chiunque abbia tradotto anche solo un paragrafo sa che ci vuole un po’ più che non un semplice clic. Forse se avesse sostituito il fotografo con un pittore iper-realista avrei potuto accettare il paragone. Infine, H.J. van Leeuwen ha girato intorno all’idea di traduzione con citazioni piuttosto banali e un sacco di riflessioni filosofiche. Non dubito che sia molto competente nel suo campo, ma nonostante il suo disclaimer iniziale “Non sono un traduttore” non ho potuto fare a meno di pensare che si trattasse per la maggior parte di fuffa filosofica. Attenzione, non ho intenzione di insultare nessuno. Anche questi ultimi due partecipanti chiaramente sapevano bene quel che stavano facendo. Soltanto che nessuno dei due si è occupato in maniera coinvolgente del processo traduttivo. Nonostante il mio vivo interesse per le teorie della traduzione, ho bisogno che la teoria abbia un ruolo di sostegno alla pratica, oppure che faccia luce su di essa. Quando la traduzione, in senso molto generale, diventa invece un esempio fra tanti in un discorso che non si occupa di traduzione, il mio interesse comincia a scemare, a meno che non stia ascoltando David Damrosch.
L’ultima sessione, che aveva fra i protagonisti il vostro affezionatissimo – eh già, non ho potuto rilassarmi fino alla fine – è stata, fortunatamente, tutta un’altra cosa. Emiko Okayama, traduttrice e ricercatrice, ha usato i propri studi per mostrare come le diverse traduzioni e i successivi adattamenti del romanzo dialettale cinese Suikoden in giapponese abbiano finito non soltanto per generare un’opera originale in giapponese (Nansō Satomi Hakkenden) ma addirittura per dare vita ad un nuovo genere nella letteratura giapponese. L’altra collega, Nataša Karanfilović, ha condotto uno studio molto attento per denunciare quel che ho chiamato il “lato oscuro della ri-creazione” dimostrando come una lunga serie di errori grossolani nella traduzione verso il serbo del romanzo The Aunt’s Story di Patrick White abbia non soltanto eliminato innumerevoli riferimenti culturali, ma reso il testo incoerente. La quasi inesistente reazione della critica ha finito per sabotare l’appeal di White sul mercato serbo, e infatti nessun altro dei suoi romanzi è stato tradotto dopo questo fiasco. Per quanto riguarda il vostro affezionatissimo, in attesa di una versione rifinita del mio articolo (e soprattutto in attesa della sua traduzione italiana, ancora inesistente), vi riporto il sommario, nella speranza che vogliate saperne di più:
Traduzione come ri-creazione
Il traduttore è uno scrittore? Dal punto di vista tecnico, parrebbe ovvio. La percezione, tuttavia, è spesso diversa. Se chi esegue una cover o reinterpreta un pezzo classico è considerato un musicista, per quale motivo il traduttore non dev’essere uno scrittore? Si potrebbe dire che il traduttore non è uno scrittore creativo, ma anche questo, ovviamente, non è esatto, dato che ogni traduzione impone costantemente la ricerca di soluzioni creative sia dal punto di vista linguistico che da quello culturale. In troppi, persino in ambito editoriale, hanno l’impressione che i testi esistano come entità immutabili, e che la lingua in cui sono scritti non sia che una patina che si può meccanicamente sfregare via e sostituire con una nuova. Quali sono i pericoli di questa errata concezione? I traduttori sono scrittori che manipolano creativamente gli elementi culturali e linguistici di un testo per produrre un nuovo testo, una creazione originale della quale sono anche legalmente riconosciuti come autori. Oltretutto, l’atto stesso del tradurre inevitabilmente influenza il tono e lo stile della narrazione, persino la voce dei personaggi. Il mio articolo partirà da questi problemi per esplorare l’idea della traduzione come ri-creazione, in ambedue i sensi della parola, “nuova creazione” e “distrazione, svago che ridà tono al fisico e allo spirito”, con particolare attenzione al potere rigenerante della traduzione su testi e lingue, così come su autori e lettori.
Dopodiché abbiamo avuto l’onore di ascoltare Rita Wilson, Brian Nelson e David Damrosch in una strepitosa discussione circa traduzione e letteratura mondiale, un parterre d’eccezione per un finale col botto.
Sfortunatamente ho perso l’occasione di ascoltare molti articoli che avrei probabilmente trovato interessantissimi. Laura Olcelli e il suo “disorientamento geografico e linguistico”, Felix Siddel che parlava di Buzzati e della “traduzione come catalizzatore in una carriera letteraria”, Maria Cristina Seccia con Translating Caterina Edwards: the overlap of two cultures, Luigi Gussago su Cesare De Marchi e molti altri ancora.
La buona notizia, tuttavia, è che questa conferenza aveva lo scopo preciso di “educare” l’accademia circa l’importanza della traduzione, e a giudicare dalla quantità di studiosi presenti (credo di essere l’unico senza affiliazione universitaria) sembra proprio che abbia centrato l’obiettivo. La traduzione sembra essere stranamente di moda in ambito accademico, ultimamente, e vorrei spronare tutti i traduttori a battere il ferro finché è caldo e contribuire quel che possono di modo che la traduzione letteraria possa finalmente avere il posto che merita negli studi letterari e culturali.
Per me la 2011 AAL conference e’ stata fonte di preziosi feedback per ritrovare “il mio orientamento geografico e linguistico”. Ora non resta che divertirsi a scommettere sul tema dell’anno prossimo: Literature and…?
Purtroppo anch’io, non avendo il dono dell’ubiquita’, ho perso le presentazioni di molti delegati: mi piacerebbe recuperare a partire dalla tua– in inglese o italiano che sia.
Aspettando,
L
Ciao Laura!
Grazie della visita, mi fa piacere risentirti.
Difficile scommettere sul tema dell’anno prossimo, a dire il vero…
La mia presentazione arriverà, prometto… Devo finire un libro e i sottotitoli di un film entro fine settimana, quindi sono sommerso. Però appena respiro la pubblico, giuro che la pubblico.
A presto!
GMB
[…] Comments « Letteratura e Traduzione – Conferenza dell’Australasian Association for Literature, … […]
Molto interessante! 🙂
Essendomi cimentata diverse volte nella traduzione di poesie dall’inglese o in inglese, ho avuto modo di pormi le domande che leggo nel sommario del tuo articolo, di cui mi auguro tu voglia pubblicare presto la versione integrale.
Tradurre richiede umiltà, perspicacia e, senza dubbio, anche creatività… oltre all’ovvia conoscenza linguistica e ad una buona preparazione letteraria.
Il lavoro del traduttore è determinante (vedi il caso citato del libro di Patrick White) nel successo di un’opera in un altro paese. Spesso, anche quello dell’editor… ma questa è un’altra storia, come si dice. (Però si potrebbe parlarne, o è troppo lontano dal ‘seminato’?)
Complimenti per il tuo sito e per i libri tradotti (Wow!!!)
Pensare che navigando qua e là quello che mi ha attratto è il tuo cognome – io sono bresciana 🙂
La storia dei dialetti italiani è pure interessante. Se decidessi di aprire un post, potrei contribuire, dimostrando come non siano idiomi raffazzonati, ma vere e proprie lingue, con la propria sistassi etc. Forse, qualche italo-australiano con radici bresciane lo aprrezzerebbe 🙂
Bene grazie di nuovo per l’interessante lettura e auguri per il tuo lavoro.
Rose
Ciao Rose, e grazie della visita!
L’articolo integrale lo trovi qui.
Grazie per i complimenti, anche se in realtà rispetto ai miei modelli sono ancora poco più che un pivello…
Per quanto riguarda gli editor si aprirebbe un capitolo interessante. Ancora più del traduttore, infatti, si ritrovano spesso a lavorare fra l’incudine e il martello.
Alle lingue regionali italiane ho accennato qui ma ci sarebbe da parlarne in maniera molto, molto più approfondita. Se e quando riuscirò a farlo, conto sul tuo contributo.
Interessante poi come tu sia arrivata qui attratta, fondamentalmente, da un’illusione. Mi spiego. Ci sono due ceppi di Brescia in Italia, uno in Lombardia (persone provenienti, originariamente, da Brescia) e l’altro sulle coste ioniche. Difficile spiegare una migrazione di massa dalle prealpi verso Puglia e Calabria, e infatti questo ceppo discende probabilmente dagli albanesi che attraversarono l’Adriatico per sfuggire agli Ottomani, nel tardo medioevo. In albanese antico “albanese” si diceva “arberesh”, e la lingua “arberesh” è ancora oggi parlata dall’omonima comunità, che non a caso è stanziata fondamentalmente in Puglia. Arberesh, arbresh, abbrescia, abrescia, brescia. Anche queste sono piccole meraviglie linguistiche, no? Non sono un italo-australiano e non ho origini bresciane. Sono savonese, di origini calabre, venete e campane, con un cognome calabrese di derivazione albanese, che si è trasferito in Australia sei anni fa! 🙂 In ogni caso, come ti ho detto, apprezzerei di sicuro il tuo contributo se e quando si parlerà di lingue regionali!
In ogni caso, mi piacerebbe sapere quali poesie hai tradotto – la traduzione della poesia è senza dubbio la vetta di questa disciplina, sia per difficoltà che per soddisfazione…
A presto!
GMB
Carina la discendenza albanese del tuo cognome! 😀 Il mondo è proprio piccolo, alla fine e, dal punto di vista linguistico almeno, è bello pensare che tutto sia così collegato e discendente da una matrice comune.
Il tuo bell’articolo (l’ho letto con attenzione) mi ha fatto ricordare che diversi scrittori sono stati ottimi traduttori. Penso a Montale, Quasimodo, a Ungaretti. La creatività messa al servizio della traduzione? Probabilmente. Ma non si può negare che anche il traduttore che non ha una produzione propria esprima creatività negli sforzi per ottenere la resa migliore. Forti gli esempi delle metafore che hai portato! Avranno fatto sorridere la tua audience. Condivido anche quello che hai detto sull’arricchimento che si può portare alla lettura… the “constant new creation and refreshment of languages, literatures and consciousness”. Sì, sì, davvero interessante e da non prendere per scontato, come invece spesso accade. Il lavoro certosino del traduttore non riceve il riconoscimento che merita. Colgo il tuo input e propongo una mozione perchè gli vada anche una parte dei diritti d’autore 🙂 Cosa ne dici?
Sei gentile a mostrare interesse per le mie, di traduzioni 🙂
Se insisti 😀 fooorse ti mando qualcosa in privato. Non sono una professionista; da giovane lavoravo come interprete per alcune ditte e cerco di tenermi allenata per non dimenticare la lingua. Diverse cose sono già sul web, qua e là. Chissà cosa ne direbbe un ‘pivello’ che tu ti definisci 😀
E’ vero che tradurre poesie è una sfida, ma può essere molto gratificante e alla fine le senti un po’ tue. Sono sicura che succede anche a te coi libri che hai tradotto. Ho dato un’occhiata: hai spaziato in molte direzioni.
Me ne procurerò almeno uno, ma mi piacerebbe averlo in lingua originale, oltre che nella tua ri-creazione. Quale mi consigli? Please, not the one on football! 😀 Bye. Rose
Ciao Rose,
scusa il ritardo nella risposta, sono state giornate pienissime.
Sono contento che tu abbia trovato interessante l’articolo. E, sì, insisto, se ti va mandami pure qualcosa. Altrimenti appena mi ricordo vado a cercarmi qualcosa sul web.
Per quanto riguarda le mie traduzioni, i libri migliori che ho tradotto sono Galveston di Nic Pizzolatto (Galveston, Strade Blu, 2010), Everything Matters! di Ron Currie Jr. (Ogni cosa è importante!, Strade Blu, 2010). Il migliore in assoluto in realtà potrebbe essere Dermaphoria di Craig Clevenger, ma per la sconvolgente miopia di alcuni manager non è mai uscito e dubito fortemente che uscirà mai… Sul blog trovi qualche informazione, se no ti consiglio aNobii…
A presto!
GMB
I ordered “Everything matters” in both the languages.
In English you can get very cheap copies, but it costs 4 times as much 😦 to have them shipped.
I’m looking forward to reading you. Bye. Rose 😀
Ciao, Giuseppe. 🙂
Ho letto un centinaio di pagine del tuo libro (la versione italiana, voglio dire). Sono a quando lui si da all’alcool, perchè lei l’ha lasciato e se n’è andata a Stanford.
Sono contenta che l’originale in inglese non sia ancora arrivato, così mi sono potuta buttare nella lettura spensieratamente e me la sto gustando, senza preoccuparmi di confrontare ecc.
Il libro mi piace molto (l’impostazione, le parti in prima persona che si alternano… Le prime pagine sono proprio ‘da sballo’ e mi hanno ‘preso’ subito), non ci sono sbavature e l’italiano è perfetto, permettendo la lettura veloce che è una mia caratteristica (o difetto).
Sembra che tu abbia fatto un lavoro eccellente e questo contribuirà sicuramente al successo dell’opera.
Complimenti e grazie per avermi suggerito il libro 😀 Sono proprio curiosa di vedere come va a finire. Quando mi arriverà la copia in inglese, sarà interessante metterle a confronto…
OGNI COSA E’ IMPORTANTE
traduzione di Giuseppe Manuel Brescia
URCA! mi sono detta. E’ proprio lui! 😀 😀 😀
Ciao, Rose.
Grazie mille, sei troppo buona come al solito. Non credo che l’italiano sia perfetto, ma di sicuro fa molto piacere sentirselo dire. 🙂
Il libro è geniale, e, soprattutto, coraggiosissimo, considerando che Currie prima aveva soltanto pubblicato una raccolta di storie brevi. Per quanto riguarda come andrà a finire, beh, diciamo che non hai ancora visto niente… 😉
A presto!
PS: ho trovato le tue poesie e i tuoi racconti su Il Gattopardo. Ho solo dato un’occhiata veloce, ma mi sembrano davvero niente male. Appena ho un attimo rileggo con calma e ti scrivo.
Ah, Giuseppe! Le mie sono solo piccole cose. Quelle sul Gattopardo sono abbastanza datate e un paio dei racconti hanno un lay out fitto-fitto orribile, non dipeso da me. Trovi alcune poesie tradotte, se mi cerchi con internet explorer (con Mozilla, c’è poco o niente).
Ehi! Questo libro non mi molla! Oggi pomeriggio ho letto per 4 ore, come se non avessi altro da fare… Ma adesso mi disciplino e comincio a pensare alla cena.
Naah! Rose, di’ la verità, che vuoi lasciarti il finale per stasera 😀
Bello, bello, comunque. Ci sono alcune cosette che mi piacerà vedere com’erano in inglese, ma tu hai fatto davvero un ottimo lavoro. Non sono troppo buona. Ciauz. Rose
WOW ! L ‘ h o f i n i t o e s o n o s e n z a pa r o l e s o l o g r a z i e.
Ma grazie a te! 🙂
Ora attendo le impressioni post-lettura dell’originale!
Salve Giuseppe 🙂
Il libro in inglese non è ancora arrivato. Controllando la conferma dell’avvenuta spedizione, mi sono accorta che prevedono l’arrivo il 1° di dicembre!!!
Non sapevo che amazon usasse il sistema ‘brevi manu’ 😦
Bah! Nel frattempo sto leggendo altre cose, per es. una cosa che mi è piaciuta assai: “La vuelta al perro” di Marco Zucchini, Gilgamesh Edizioni.
Periodi lunghissimi, poca punteggiatura, in una sorta di stream of consciousness che metterebbe alla prova un traduttore, penso 😉
Ordinerò Galveston, intanto. Mi fido dei tuoi suggerimenti.
Saluti e buon lavoro. r