Molti di voi conosceranno l’ottimo blog Three Percent, che la University of Rochester mantiene sin dal 2007. Probabilmente saprete anche che il nome viene dalla stima che le traduzioni costituiscano meno del 3% delle opere pubblicate ogni anno in inglese. Sappiamo invece che in Europa, e nel resto del mondo, invece, quella cifra può raggiungere il 35%. Si tratta di una differenza enorme, specialmente quando consideriamo l’importante ruolo giocato dalla traduzione nello sviluppo e nella costante rigenerazione delle letterature nazionali (pensiamo a Goethe, secondo il quale senza influenza esterne le letterature nazionali si ritrovano rapidamente in una fase di stagnazione). Si potrebbe quindi pensare, sulla base di queste cifre, che ci sia molta più attenzione verso la traduzione e verso “l’Altro” al di fuori della cosiddetta anglosfera. Come sempre, però, la questione non è tanto semplice.
C’è un altra faccia del problema. Le traduzioni verso l’italiano (e verso quasi ogni lingua, con l’eccezione dell’Inglese) sono spesso commissionate da editori che devono sottostare ad una logica puramente commerciali, per cui non soltanto la maggior parte delle traduzioni è composta da letture da ombrellone, ma persino la traduzione di quelle opere che hanno maggiore dignità letteraria deve sottostare ad una concezione da “catena di montaggio” a causa della quale abbiamo spesso appena tre o quattro mesi per tradurre un libro, o, in alcuni casi, poche settimane. Le traduzioni verso l’inglese, invece, sono spesso opere accademiche o vengono commissionate da editori molto seri ed attenti. Attenti non solo alla qualità delle opere o della loro traduzione, ma anche al traduttore e alla sua importanza, con conseguenze notevoli anche sui compensi e sulla visibilità dei traduttori. Questa radicale differenza nella percezione del ruolo della letteratura tradotta sui diversi mercati non è soltanto di tipo filosofico, ma è causa anche di enormi differenze nel modo in cui i traduttori si trovano a lavorare.
Negli ultimi mesi, ad esempio, ho tradotto due libri in pochissimo tempo, per una serie di ragioni di marketing. Si trattava di un memoir di 350 pagine, tradotto in meno di due mesi, e di un libro accademico che avevo soltanto ventisette giorni per tradurre. Ho fatto del mio meglio, lavorando tra le 60 e le 70 ore a settimana così da riuscire a fare perlomeno quattro stesure di ogni libro. Due o tre in meno di quelle che faccio di solito, e, oltretutto, non c’era il tempo di mettere da parte la traduzione per una settimana, dedicarsi a qualcos’altro, e riprendere in mano la traduzione a mente fredda, una pratica che mi permette sempre di fare un passo indietro e di scovare piccoli dettagli che sfuggono all’occhio quando si lavora senza sosta. Parlando con Meredith McKinney a cena, al recente simposio di Sydney, siamo rimasti vicendevolmente shockati, io dal fatto che lei abbia, in media, un anno di tempo per ogni libro che traduce, e lei del fatto che io stessi per imbarcarmi in una traduzione di 350 pagine che avrei dovuto finire in sette settimane. Poi la mattina dopo John Minford ci ha ricordato che era quattro anni in ritardo sulla data di consegna della sua traduzione dell’I-Ching per Penguin Classics, mettendo ulteriormente in evidenza questa affascinante differenza nel modo in cui ci troviamo a lavorare. Da qui è partita una riflessione sui diversi trattamenti riservati alla traduzione e ai traduttori, un tema che continuava a venire a galla durante le conversazioni con i colleghi durante il simposio, soprattutto perché ero uno dei pochi traduttori a tradurre non verso l’inglese ma dall’inglese.
Sembra quindi che la domanda sia la seguente: è meglio avere un’ampia gamma di influenze straniere nella forma di molte traduzioni affrettate oppure contare su una piccola nicchia di opere tradotte da persone che sono innanzitutto autori e accademici? Non è facile dare una risposta secca, ovviamente. E, pensandoci bene, sarà poi inevitabile che questa differenza si rifletta sulla qualità delle traduzioni? In una recente intervista ad Anna Maria Biavasco, la mia maestra ha fatto notare che
Un tempo a tradurre erano letterati, intellettuali e studiosi. Bravissimi a scovare opere interessanti, ma spesso non altrettanto a tradurre. Adesso ci sono gli editor che leggono, leggono e leggono alla ricerca del libro da pubblicare e i traduttori che traducono, traducono e, secondo me, traducono meglio perché conoscono meglio il loro mestiere.
La sua osservazione complica ulteriormente il problema. Non è da escludere che le esigenze del mercato al di fuori del mondo anglosassone comportino una migliore formazione e una pressione tale da portare i traduttori cresciuti all’interno di quei sistemi ad acquisire un approccio più pragmatico ed efficiente, che può permettere di compensare i tempi strettissimi e gli editori disattenti, al contrario di quanto avviene nell’anglosfera, dove i traduttori lavorano in un ambiente più accademico e, a volte, dilettantistico (nel senso buono della parola).
Si tratta di un tema molto interessante per un traduttore come il sottoscritto, che traduce letteratura verso l’italiano e sta cominciando a discutere di traduzione in un ambiente anglofono, e spero che la discussione si possa sviluppare ulteriormente con l’aiuto dei commenti dei lettori. La domanda definitiva, tuttavia, sembra piuttosto semplice: perché scegliere fra questi due modelli? Possibile che sia così difficile rendersi conto che servono più traduzioni, che i traduttori hanno bisogno di tempo per produrre opere di qualità, e che non possono fare affidamento sulla sola passione per la letteratura ma devono anche studiare approfonditamente il proprio mestiere?
Foto: Books, di Ryan Hide (Flickr), particolare.
Per spiegare la differenza nel numero di opere tradotte, in inglese o dall’inglese, penso che nel nostro paese persista un sentimento di esterofilia, di sudditanza psicologica per ciò che è straniero, soprattutto se inglese, appunto.
Gli Inglesi, d’altra parte, non hanno dimenticato i fasti del loro impero coloniale che era sostenuto dalla ferma convinzione dell’eccellenza della propria cultura e dal dovere di portare la propria civiltà in ogni angolo del mondo.
Gli Americani in fondo hanno ereditato questo atteggiamento di superiorità ed esercitano una grande influenza politica, economica e culturale su buona parte del globo. Non a caso, l’inglese è la lingua più diffusa.
Inevitabile quindi che anche la letteratura inglese, ma soprattutto quella americana, sia maggiormente tradotta.
Peccato per i tempi ristretti concessi ai traduttori. Ne va certamente della qualità del loro lavoro… ma le regole del consumismo 😦 dettano legge anche in questo campo, temo.
Un saluto. R
Qui ci sarebbe da aprire un capitolo a parte, e parecchio complesso… Secondo me siamo esterofili – sempre di più – perché anche i più sciovinisti si rendono conto della crisi culturale ed etica che il paese attraversa ormai da un sacco di tempo…
Per quanto riguarda il dominio dell’inglese, è un dato di fatto, basta guardare l’Index Translationum dell’Unesco (l’80% di tutte le traduzioni al mondo sono traduzioni dall’inglese) ma ritengo che sia precchio semplicistico liquidare la cosa come una sorta di imperialismo linguistico e culturale. In realtà sto preparando un articolo che spero di poter presentare ad una conferenza il prossimo anno (se me lo accettano) proprio su questo tema. Per farla breve, comunque, credo che negli ultimi vent’anni la traduzione ed il suo ruolo siano stati eccessivamente caricati di significati politici da un certo segmento dell’accademia, che a mio avviso forza la mano spesso e volentieri pur di affibbiare agli americani (e l’anglosfera in generale) il ruolo di cattivoni imperialisti e causa del declino di ogni cultura. Io non sono d’accordo. Non si arriva a certi numeri (come la cifra che cito sopra) per una semplice imposizione imperialista, ci si arriva perché le culture che ricevono tutte queste traduzioni dall’inglese vogliono ricevere traduzioni dall’inglese. Magari qualcuna sarebbe evitabile (anche un paio di quelle che ho fatto io, non lo nascondo), ma resta il fatto che la domanda è alta, perché l’inglese è una lingua che ha accumulato un certo prestigio internazionale, così come la cultura dei paesi che lo parlano. Le donne di tutto il medio oriente, per fare un esempio stupido, vogliono leggere la letteratura femminista inglese e americana. E rischiano grosso per procurarsela, così come si rischiava grosso pur di procurarsi le cassette pirata delle band occidentali nella Teheran dei primi anni ’80… Al contrario, la Cina è in ascesa continua da due lustri, ha in mano il debito americano, ha un miliardo e trecentomila persone, ma ben poche persone hanno interesse a leggere la letteratura di regime cinese. C’è l’impero, ma manca il prestigio. Gli accadi conquistarono i sumeri ma non solo ne adottarono la lingua, addirittura tradussero un sacco di testi dal sumero all’accadico. Idem con patate per i greci con i romani.
A ben vedere, fino a cinquant’anni fa c’era uno squilibrio traduttivo che andava tutto a favore del francese e del tedesco, in maniera sproporzionata al loro peso numerico, nonostante l’impero coloniale francese fosse relativamente poca cosa rispetto a quello britannico e quello tedesco fosse poca cosa e basta. Si traduceva molto da quelle lingue perché negli ultimi due secoli i francesi hanno inventato gran parte della letteratura moderna, e i tedeschi erano padroni della filosofia. Credo che il mondo anglofono, e gli Stati Uniti in particolare, si trovino in una posizione molto simile, soltanto che, vista la potenza militare americana, si tende a falsare il discorso e a vedere tutto come l’ennesima manifestazione di un imperialismo a mio avviso parecchio gonfiato…
Scusa la filippica, spero di non averti annoiata… 😉
A presto!
G
Non mi hai annoiata 🙂 e mi dispiace che il mio breve commento sia suonato semplicistico. Questa “sorta di imperialismo culturale e linguistico” dell’inglese è sicuramente un dato di fatto; personalmente non lo intendo in chiave negativa. Io stessa infatti prediligo la letteratura inglese (per non parlare del cinema).
Sarà interessante leggere il tuo articolo.
Un saluto. Rose 🙂
Ciao!
In realtà il tuo commento non era affatto semplicistico, mi ha soltanto dato un’opportunità per parlare dela tendenza di molti accademici ad ideologizzare eccessivamente fatti che secondo me sono prevalentemente linguistici e culturali. Sono ben lieto che anche tu sia d’accordo, ovviamente. 🙂
A presto!
GMB
Il commento non è semplicistico. La cultura non si semplifica mai. Le traduzioni ne sono lo specchio fedele.