Qualche giorno fa abbiamo discusso questo articolo apparso su New Scientist, collegando l’idea di diversità linguistica che emerge dallo studio all’argomento principale di cui trattiamo su questo blog, e usandola come un ennesimo strumento con il quale divulgare quello che è il lavoro del traduttore. Affrontando differenze specifiche fra le lingue, e usando esempi appropriati, diventa più facile spiegare quel che facciamo senza dover ricorrere a quel genere di gergo metafisico che, ammettiamolo, i traduttori adoperano un po’ troppo spesso, e che servono solo a perpetuare errate concezioni della nostra professione.
Oggi vorrei citare e tradurre al volo un altro passaggio dello stesso articolo, meno attinente alla traduzione in senso stretto, ma nonostante questo estremamente interessante, e sul quale vale la pena di riflettere:
Negli ultimi anni, si è parlato molto dell’idea che gli umani possiederebbero un “istinto linguistico”: i bambini imparano facilmente a parlare perché tutte le lingue seguono una serie di regole già presenti nel cervello. E sebbene non vi sia dubbio che il pensiero umano influenzi la forma che prendono le lingue, se Evans e Levinson hanno ragione, il linguaggio a sua volta plasma il nostro cervello. Ciò suggerisce che fra gli esseri umani potrebbero esistere più variazioni di quanto pensassimo, e che i nostri cervelli funzionerebbero diversamente a seconda dell’ambiente linguistico in cui siamo cresciuti. Il che ci porta ad un’inquietante conclusione: ogni volta che una lingua si estingue, l’umanità perde un importante elemento di diversità.
Penso subito allo scenario italiano. Al di là delle lingue minoritarie “straniere”, parlate in aree molto limitate o storicamente e culturalmente distinte (Albanese, Catalano, Tedesco, Greco, Sloveno, Croato, Francese, Franco-Provenzale, Occitano) soltanto tre lingue regionali sono riconosciute come tali: il Friulano, il Ladino, e il Sardo. Poi abbiamo quella lunga lista di lingue regionali riconosciute dall’UNESCO ma considerate “dialetti” dallo stato italiano. Di nuovo, alcune di queste lingue sono parlate da comunità estremamente piccole, altre, invece, fino a tempi recentissimi, erano le lingue madri della maggior parte degli italiani (Emiliano-Romagnolo, Ligure, Lombardo, Napoletano, Piemontese, Siciliano, Veneto) eppure oggi sono tutte considerate “vulnerabili” o “a rischio estinzione.”
Uno dei problemi, ovviamente, riguarda il dove tracciare la linea che separa dialetto e lingua. Tuttavia, ciò che fa sorridere è che quando sentite la gente parlare “italiano”, il loro eloquio sarà comunque pieno di prestiti e calchi presi dalla lingua locale. Senza di essi, l’italiano sarebbe assai più bigio. Un altro problema che chiunque abbia a cuore le lingue regionali si trova davanti nell’Italia di oggi è che la Lega Nord esalta le lingue regionali per tutta una serie di ragioni, quasi tutte sbagliate, e qualsiasi altro sforzo di proteggere dette lingue viene spesso liquidato come retrogrado e miope sia da destra che da sinistra. Il che, a mio modesto parere, è uno stato di cose molto, molto triste. Non fraintendetemi, le lingue cambiamo costantemente. Non avrebbe senso imporre il genovese ottocentesco al ligure medio di oggi (sebbene con l’ebraico ci si sia spinti molto più in là), tuttavia la generazione dei miei genitori già parlava una versione assai italianizzata del ligure, ma che nonostante tutto era una lingua separata, parlata in contesti diversi. Da orgoglioso sostenitore del multilinguismo come modo per aprire la mente, non riesco davvero a capire che senso abbia perdere la nostra straordinaria diversità linguistica senza nemmeno provare a salvarla.
Non posso fare a meno di pensare ai miei amici senegalesi conosciuti in Francia. La maggior parte di loro parla wolof, sebbene alcuni, provenienti da etnie diverse, parlino sia la lingua della loro etnia d’origine, sia il wolof in quanto lingua maggioritaria nel paese, più il francese, e un inglese decente, a vari livelli.
Per quale motivo allora ci sembra così assurda l’idea di insegnare l’italiano come si deve ai nostri studenti (qualcosa che, stando ad una rapida ricerca su Google, siamo ancora ben lontani dal riuscire a fare) prepararli a parlare un inglese decente, e al contempo proteggere e promuovere la ricchezza culturale rappresentata dalle lingue regionali?
…sono molto cinico in merito…
ma credo che dipenda molto + dagli individui e dalla loro esistenza piuttosto che dalle istituzioni o dalla didattica.
So che non ti garba il discorso dell’attitudine innata, ma credo proprio che sia così.
Per imparare (e ricordare) una lingua serve bisogno e quindi curiosità, non servono insegnamenti o mezzi costosi.
Mettiti il cuore in pace: perdiamo la diversità linguistica (ergo anche un po’ di identità) solo grazie al fatto che l’uomo comune ha già troppi tasti sul telecomando da schiacciare.
Non c’è tempo per nient’altro 😉
Toh, il venerabile Biolo! Grazie della visita!
Guarda, sul cinismo non avevo dubbi. 🙂 All’attitudine innata come sai non credo, o meglio, nessuno finora è riuscito a dimostrarla, al contrario invece dell’importanza fondamentale dell’esperienza (anzi, mi tocca citare il Biolo quando dice “. Quindi, insieme con scie chimiche, rettiloni alieni, vecchietti inaciditi nel cielo, e astrologia predittiva, la lascio nel cassetto delle fiabe.
Riguardo bisogno e curiosità, mi trovi ovviamente d’accordissimo, il problema grave è proprio la miopia della gente che non si rende nemmeno conto di aver bisogno di studiare le lingue se vuole aprirsi la mente, conoscere il mondo, trovarsi prospettive migliori. Come dici tu, schiacciano i tasti sul telecomando, e se non capiscono qualcosa tanto c’è Google Translate (che nonostante sia impressionante partorisce ancora delle oscenità pazzesche).
Però io, passato il momento dei sensi di colpa pseudo-bolscevichi e del volemose bbene, sono tornato ad essere l’elitista che sono. 😉 Quindi, se una cosa si fa a cazzo di cane (in questo caso l’approccio al proprio bagaglio linguistico) non posso che notare e far notare. Ma sono cose che già sai… 😉
A presto!