Per continuare il discorso sulla malatraduzione in ambito cinematografico avviato qualche giorno fa, vorrei analizzare un caso recente e poco discusso, ossia The Wackness (2008) con un esilarante Ben Kingsley nei panni di uno psicanalista sballone di mezza età; un film che ho adorato per tutta una serie di motivi, alcuni estetici, altri puramente emotivi.
Partiamo, ovviamente, dal titolo, che si rifà a un dialogo nel quale il protagonista viene accusato dalla sua fiamma estiva di vedere solo il brutto della vita, appunto “the wackness”. Dice, la giovane:
“Know what your problem is, Shapiro? It’s that you just have this really shitty way of looking at things, ya know? I don’t have that problem. I just look at the dopeness. But you, it’s like you just look at the wackness, ya know?”
che nella versione italiana diventa
“Sai qual è il tuo problema Shapiro? È che tu hai davvero un modo del cazzo di guardare alle cose, capisci? Io non ho quel problema, io vedo solo lo sballo… mentre tu vedi solo l’aspetto negativo… mi spiego?”
Se conoscete un po’ di inglese, vi accorgerete subito di come nella traduzione il registro cambi radicalmente, di come si perda del tutto il gergo giovanile. L’osservazione della ragazza diventa uno pseudo-predicozzo assai più forbito e più piatto dell’originale. Un vero colpo al cuore alla caratterizzazione dei personaggi e all’impatto dei dialoghi. E poi “dopeness” non vuole dire sballo. La ragazza ne esce come una fattona cronica, e invece, nello slang in questione, si usa “dope” come aggettivo per descrivere qualcosa di bello, ottimo, valido. E, ancor peggio, “wackness” è l’esatto opposto, le cose brutte, fastidiose della vita. Certo, sono due parole difficilissime da tradurre in modo efficace. Ma forse si poteva azzardare qualcosa del genere:
“Sai qual è il tuo problema Shapiro? È che hai proprio ‘sto modo del cazzo di vedere le cose, capisci? Io non ce l’ho quel problema, io vedo solo i pregi… Ma tu, è come se vedessi solo gli scazzi… capisci?”
Mi si perdoni il tentativo non richiesto – che pur non mi soddisfa – ma si tratta di rispettare non solo il senso, ma il tono, lo stile, il non meglio definito ma comunque essenziale spirito dell’originale, nel suo insieme. Creare nello spettatore italiano un’impressione la più simile possibile a quella suscitata dall’originale nel suo destinatario. Lo spettatore italiano, assuefatto al doppiaggio, non ha idea di quanti personaggi memorabili si sia perso, per colpa di pessimi traduttori e pessimi doppiatori. Ma divago, sono pedante. È che fondamentalmente vorrei tradurli io, i dialoghi di certi film.
Tornando a noi, il passaggio appena analizzato fotografa la personalità del protagonista, ha senso che sia il titolo dell’opera. E se anche non avesse senso, resta comunque la scelta degli autori. La frase usata per il titolo italiano, invece – Fa’ la cosa sbagliata – è una storpiatura di una battuta del personaggio di Ben Kingsley,
“Sometimes it’s right to do the wrong thing, and right now is one of those times”
tradotta con
“A volte è giusto fare la cosa sbagliata, e questa è una di quelle volte.”
La prima parte della frase è riportata sulla locandina orignale. L’ammiccamento al capolavoro di Spike Lee c’era già, ma era discreto, confinato in alcune righe piccole. E poi, l’imperativo “Fa’ la cosa sbagliata” non viene mai pronunciato nel film. In italiano si assiste quindi ad una grossa forzatura, beceramente volta a richiamare, come al solito, un titolo di successo. Così, a mio parere, si offendono gli autori e gli spettatori. Perlomeno quelli seri.
Tra parentesi, sulla locandina originale il titolo era scritto con un calzante graffito wild style, mentre in italiano il carattere usato è assai scialbo. Tanto per parlare di fedeltà.
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